Il crocifisso non è una clava

Dicembre 9, 2009 by admin · Comment
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rassegna stampa

 da La stampa del 7 dicembre 2009

di Enzo Bianchi

Prima la polemica sull’esposizione del crocifisso nelle aule scolastiche in Italia, poi (una settimana fa) il risultato del referendum popolare in Svizzera che vieta l’edificazione di minareti. Le due tematiche sono solo apparentemente affini.
In un caso si tratta infatti della presenza di un simbolo religioso in aule pubbliche non destinate al culto, nell’altro invece di un elemento caratterizzante un edificio in cui esercitare pubblicamente e comunitariamente il diritto alla libertà di culto. Resta il fatto che si fa sempre più urgente una seria riflessione sugli aspetti concreti e quotidiani della presenza in un determinato paese di credenti appartenenti a religioni diverse e delle garanzie che uno Stato democratico deve offrire per salvaguardare la libertà di culto.
La paura esiste, è cattiva consigliera e porta a percezioni distorte della realtà - come dimostra anche il recente sondaggio sui timori degli italiani nei confronti degli immigrati - ma proprio per questo non deve essere lasciata alla sua vertigine, ma va oggettivata, misurata e ricondotta alla razionalità, se si vuole una umanizzazione della società. Del resto è proprio l’essere «concittadini», il conoscersi, il vivere fianco a fianco, condividendo preoccupazioni per il lavoro, la salute, la salvaguardia dell’ambiente, la qualità della vita, il futuro dei propri figli, che porta a una diversa comprensione dell’altro. Dirà pure qualcosa, per esempio, il fatto che tra i pochissimi cantoni svizzeri che hanno respinto la norma contro i minareti ci siano quelli di Ginevra e di Basilea, caratterizzati dalla più alta presenza di musulmani.
In Italia l’esito del referendum svizzero contro i minareti ha rinfocolato le polemiche, e non è mancato chi ha invocato misure analoghe anche nel nostro paese, impugnando di nuovo la croce come bandiera, se non come clava minacciosa per difendere un’identità culturale e marcare il territorio riducendo questo simbolo cristiano a una sorta di idolo tribale e localistico. Così, lo strumento del patibolo del giusto morto vittima degli ingiusti, di colui che ha speso la vita per gli altri in un servizio fino alla fine, senza difendersi e senza opporre vendetta, viene sfigurato e stravolto agli occhi dei credenti. La croce, questa «realtà» che dovrebbe essere «parola e azione» per il cristiano, è ormai ridotta a orecchino, a gioiello al collo delle donne, a portachiavi scaramantico, a tatuaggio su varie parti del corpo, a banale oggetto di arredo… Tutto questo senza che alcuno si scandalizzi o ne sottolinei lo svilimento se non il disprezzo, salvo poi trovare i cantori della croce come simbolo dell’italianità, all’ombra della quale si è pronti a lanciare guerre di religione. Ma quando i cristiani perdono la memoria della «parola della croce», e assumono l’abito del «crociato», rischiano di ricadere in forme rinnovate di antichi trionfalismi, di ridurre il Vangelo a tatticismo politico: potenziali dominatori della storia umana e non servitori della fraternità e della convivenza nella giustizia e nella pace.
Va riconosciuto che la Chiesa - dai vescovi svizzeri alla Conferenza episcopale italiana, all’Osservatore Romano - ha colto e denunciato quest’uso strumentale della religione da parte di chi nutre interessi ideologici e politici e non si cura del bene dell’insieme della collettività, ma resta vero che in questi ultimi anni abbiamo assistito a una progressiva erosione dei valori del dialogo, dell’accoglienza, dell’ascolto dell’altro: a forza di voler ribadire la propria identità senza gli altri, si finisce per usarla e ostentarla contro gli altri. Se la croce è brandita come una spada, è Gesù a essere bestemmiato a causa di chi si fregia magari del suo nome ma contraddice il Vangelo e il suo annuncio di amore. La vera forza del cristianesimo è invece il vissuto di uomini e donne che con la loro carità hanno umanizzato la società, mossi dall’invito di Gesù: «Chi vuol essere mio discepolo, abbracci la croce e mi segua» e dal suo annuncio: «Vi riconosceranno come miei discepoli se avrete amore gli uni per gli altri». Quando i cristiani si mostrano capaci di solidarietà con i loro fratelli e sorelle in umanità, quando rinunciano a guerre sante e restano nel contempo saldi nel rendere testimonianza a Gesù, a parole e con i fatti, allora potranno essere riconosciuti discepoli del loro Signore mite e umile di cuore.
Sì, le dispute su crocifissi e minareti non dovrebbero farci dimenticare che la visibilità più eloquente non è quella di un elemento architettonico o di un oggetto simbolico, ma il comportamento quotidiano dettato dall’adesione concreta e fattiva ai principi fondamentali del proprio credo, sia esso religioso o laico.

La Chiesa, il Pd e il silenzio dei cattolici democratici di Andrea Romano

Settembre 5, 2009 by admin · Comment
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 RASSEGNA STAMPA -fonte-

• da Il Sole 24 Ore del 4 settembre 2009, pag. 16

Nella partita nuova e sempre più disordinata che si è aperta tra berlusconismo e Chiesa italiana è da registrare con qualche sorpresa il silenzio dei cosiddetti “cattolici democratici”, ovvero di coloro che hanno predicato e praticato la mediazione politica tra la propria fede e l’esigenza di governare una nazione moderna e plurale.

Naturalmente non sono mancate in Parlamento e nei partiti di opposizione le prese di posizione, anche molto nette, di singoli esponenti cattolici contro le particolarità comportamentali del Presidente del Consiglio e più recentemente contro gli attacchi venuti dalla stampa filo-berlusconiana alla persona di Dino Boffo.

Ma quella che è clamorosamente mancata è la sensazione di una presenza di quella vasta e autorevole area del centro-sinistra che nell’ultimo decennio ha tentato di aggiornare alle condizioni della Seconda repubblica la lezione che fu già di De Gasperi e Moro: testimoniare la propria fede senza rinchiudersi nella rappresentanza confessionale di una sola parte d’Italia, cercare ad ogni passo di coniugare in senso universalistico la vocazione cristiana con lo spirito della democrazia e della giustizia sociale.

La ragioni di quest’assenza non possono essere cercate esclusivamente nei patimenti congressuali del Partito democratico, per quanto l’incombere della vittoria di Bersani nel segno del revival socialdemocratico stia evidentemente concorrendo a togliere energia ed entusiasmo a quell’area C’è forse qualcosa di più nell’incapacità di inserirsi con forza nel primo vero conflitto che si registra da molti anni tra Berlusconi e una componente non secondaria delle gerarchie ecclesiastiche, con le sue inevitabili ricadute su almeno una parte dell’elettorato cattolico di centro-destra.

Qualcosa che ha a che fare con la più recente parabola storica del cattolicesimo democratico, che dopo la stagione di Romano Prodi non sembra più in grado di trovare ragioni abbastanza forti per giustificare la propria identità organizzata e quella funzione di ago della bilancia svolta per molti anni sulla scena politica non berlusconiana.

Nella stagione di Prodi, specialmente per gli ansi del primo Ulivo, l’aspirazione universalistica dei cattolici democratici aveva trovato un nuovo modo di stare al mondo dopo la fine della Dc. Era stata figlia diretta di quell’aspirazione la scelta di Prodi come candidato alla presidenza del consiglio, ma soprattutto fu emanazione di una tradizione alta di amministrazione della cosa pubblica lo schieramento di una classe dirigente che in quegli anni ha saputo distinguersi nel governo del paese e nell’assunzione di scelte coraggiose, necessarie e spesso impopolari.

Comunque la si pensi e comunque si sia votato nel 1996,  è difficile negare che negli ultimi anni dello scorso decennio il contributo venuto dal cattolicesimo democratico alla concreta pratica di governo del paese sia stato di alta qualità. I problemi sono venuti dopo.

Quando la stagione del primo Ulivo si è consumata come tutti ricordiamo e quando dalle soluzioni di governo il protagonismo dei cattolici democratici si è spostato a quel conflitto sui valori che nel frattempo andava colonizzando gran parte dei nostro discorso pubblico.

Qui il centro-destra ha avuto buon gioco nell’assorbire le ragioni del tradizionalismo cattolico, nella debolezza di una cultura politica che se pure si era detta fugacemente liberale non è mai riuscita a darsi forza e coerenza sufficienti a costruire posizioni autonome sui nuovi temi della vita e della persona.

La controprova è nelle più recenti prese di posizione di Gianfranco Fini, che tenta di risalire la china di questa passività collegandosi a quanto negli stessi anni è stato realizzato dai settori più innovativi del centro-destra europeo. Sull’altro fronte, nel centrosinistra, la chiamata al conflitto sui valori ha frantumato la tradizione del cattolicesimo democratico in una piccola nube di appartenenze tutte minoritarie: dall’esperimento teodem con cui si è cercato di costruire un nuovo protagonismo politico dei cattolici non berlusconiani ma lontani dagli stilemi del cattolicesimo di sinistra, alla nostalgia prodiana  degli ulivisti più irriducibili fino al più recente tentativo di Ignazio Marino di ibridare la fede personale con soluzioni bioetiche di segno radicalmente laico.

Tentativi tutti minoritari sia perché incapaci di contrastare la compattezza del neo-tradizionalismo del centro-destra, sia perché inseriti in un contenitore di partito dove ogni singola identità rivendica una propria casella dentro un comune accordo di non belligeranza.

Ogni componente conserva il proprio potere di interdizione e tutte concorrono a definire in modo pattizio una leadership che, anche domani, non sarà che l’ennesima espressione di un passato che non accenna a passare.

Per i cattolici democratici lontani dal governo e spesso anche da una cultura di governo gli effetti di questo accordo nel contesto dell’Italia post-secolare hanno significato la dispersione in molte piccole tribù.

Con il doppio risultato negativo di rendere del tutto pacifico il ritorno egemonico di quella tradizione post-comunista che, seppur indebolita, non ha certamente subìto lo stesso destino di frammentazione.

E soprattutto di perdere la voce nei momenti in cui, come oggi, sarebbe utile e opportuno anche agli occhi di chi non è credente saper mostrare forza e attrattiva nei confronti di un elettorato cattolico quanto meno spaesato di fronte a quanto sta accadendo.