“QUEL GUAZZABUGLIO DELLE PRIMARIE” di Enrico Ricciuto
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CORRIERE DEL MEZZOGIORNO NA
12 febbraio
Quel guazzabuglio delle primarie
Caro direttore, da lettore del Corriere del Mezzogiorno, ho condiviso le sue riflessioni sulla questione delle primarie tenutesi il 27 gennaio scorso, ma, il contenuto della intervista a Raffaele Cananzi, presidente della commissione di garanzia, di cui il sottoscritto, in qualità di rappresentante del Partito Socialista ha fatto parte, mi impone o, meglio, mi autorizza a raccontarle i fatti di cui sono stato protagonista.
Il giorno successivo a quello del voto, nella sede del Pd, la commissione di garanzia si riunì per esaminare i ricorsi relativi ai gravi e documentati casi di brogli relativi al voto.
Mentre la commissione era riunita per l’esame dei ricorsi, intorno alle ore 20.30, un gruppo di facinorosi presentatisi con cartelli a favore del candidato Cozzolino, interruppe i lavori, che furono aggiornati all’indomani.
Martedì la commissione continuò i lavori stabilendo di completarli per giovedì 31 gennaio.
In tale data, essendo ormai completata l’istruttoria, il sottoscritto per il Partito Socialista e i rappresentanti di Sinistra e Libertà e della Federazione della Sinistra, chiesero che si deliberasse in ordine ai ricorsi.
A questo punto, il rappresentante del Pd, comunicandoci la decisione del commissariamento del suo partito, ci invitò a sospendere le riunioni, in quanto qualunque decisione fosse stata presa, sarebbe stata sostanzialmente inutile.
Il sottoscritto, che ha sempre creduto e crede ancora nella serietà delle primarie e nel diritto dei cittadini al risultato, quiunque esso sia, si dimise dalla commissione, dichiarando che la volontà di non decidere, di fronte a ciò che era stato riscontrato, fosse offensiva della propria dignità e di quella degli elettori.
Leggendo le dichiarazioni del presidente Cananzi di ieri:In sede politica si sia affermata la volontà di andare oltre i due candidati…
Noi non dobbiamo indicare il vincitore in astratto delle primarie, ma il candidato a sindaco di Napoli… Il risultato non era lo scopo del contributo sono ancora più convinto di avere fatto la cosa giusta.
E’ ovvio che nessun cittadino, nessuna persona che ha creduto e partecipato alle primarie potrebbe accettare questi ragionamenti, che, sono convinto, rafforzerebbero le convinzioni di intellettuali come Saviano e Cacciari sulle irregolarità verificatesi.
Non è così che si rispettano i partecipanti alle primarie.
Il Partito Socialista ha più volte invitato il presidente Cananzi, telefonicamente e per iscritto di riunire la commissione di garanzia per deliberare. Tuttavia, a oggi, ciò non avviene.
Enrico Ricciuto
Rappresentante del Partito Socialista nella commissione di garanzia per le primarie
Addio a Cossiga, il “Picconatore”Da Berlusconi a Occhetto-zombie
- Tante sono le frasi a effetto e le battute brucianti per cui Francesco Cossiga sarà ricordato. Eccone alcune:
“Basta scherzi”
«Adesso gli scherzi sono finiti», 23 marzo 1991 - Intervistato alla Fiera di Roma, Cossiga, presidente della Repubblica, minaccia lo scioglimento delle Camere e annuncia la stagione delle “picconate”.
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Violante
«Violante è un piccolo Vishinski», luglio 1991 - In risposta all’esponente del Pds.
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Picconate
«Io ho dato al sistema picconate tali che non possa essere restaurato, ma debba essere cambiato», 11 novembre 1991, alla presentazione del libro «Cossiga, uomo solo» di Paolo Guzzanti.
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Elezioni del ‘48
«Io facevo parte di una formazione di giovani democristiani armati, armati dall’arma dei carabinieri, per difendere le sedi dei partiti e noi stessi nel caso che i comunisti, perdute le elezioni, avessero tentato un colpo di stato», 11 gennaio 1992, rievocando le elezioni del 1948.
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Occhetto
Achille Occhetto, segretario del Pds, è uno «zombi con i baffi», che fa rivivere «le cose più abbiette e più volgari del paleostalinismo», 22 gennaio 1992. In risposta al Pds che attacca su Gladio.
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Berlusconi
«Se Berlusconi è il nuovo De Gasperi, io sono il nuovo Carlo Magno», 18 aprile 1998, in risposta a don Gianni Baget Bozzo che esalta Berlusconi.
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Folena
«Quando vedo Folena penso sempre a quanto ha perduto la moda e quanto poco ha guadagnato la politica». «Con la sua eleganza, la sua finezza è chiaramente un mancato indossatore», 22 giugno 1998, in polemica con il responsabile giustizia dei Ds.
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Moro
«Io ho concorso ad uccidere o a lasciar uccidere Moro quando scelsi di non trattare con le Br e lo accetto come mia responsabilità, a differenza di molte anime candide della Dc», 15 febbraio 2001.
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Calciopoli
«La giustizia sportiva è una buffonata», 6 luglio 2006, su Calciopoli.
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“Sono cattolico”
«È anche vero che io abbia una origine familiare di grandi tradizioni repubblicane, antifasciste, radicali e massoniche. Ma non sono stato e non potrò mai essere massone perchè sono cattolico», 16 ottobre 2009, sui suoi rapporti con la massoneria.
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la stampa
Di Oscar Giannino –Rassegna Stampa - Per la tregua al Sud non bastano i fondi
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Il mattino-
Si usa dire che la politica sia l’arte del possibile. Quando si deve riparare a una condizione inaspettata, ciò che fino al giorno prima veniva escluso a priori in politica può diventare invece la via maestra per risolvere un problema. È di questo tipo, il dilemma con il quale Berlusconi, Tremonti e Bossi saranno alle prese in queste settimane di agosto.
Perché la nascita di un gruppo a Montecitorio che si rifà al presidente della Camera Fini, e che numericamente è tale da impedire al centrodestra di poter contare su una maggioranza politica in sua assenza, obbliga premier, Pdl e Lega a immaginare proprio ciò che sembrava impensabile, nelle prime ore successive al fatto e nell’incandescenza del dibattito sulla sfiducia al sottosegretario Caliendo.
E cioè proporre al leader di Futuro e Libertà un vero e proprio patto di legislatura, trattandone con rispetto e precisione argomenti e strumenti attuativi.
Solo nel caso in cui i finiani rispondessero picche o assumessero toni provocatori prima ancora di sedersi al tavolo, la richiesta di elezioni anticipate potrebbe risultare meno “marziana” alle orecchie del Quirinale.
È una partita difficile, visto il carico di diffidenze incrociate a cominciare dal rapporto diretto tra Berlusconi e Fini, per non parlare dei rispettivi luogotenenti.
Ma è una partita obbligata.
Tanto che già circolano come indiscrezioni, i capitoli generali dell’accordo per consentire alla legislatura di continuare a rispettare il mandato attribuito dagli elettori ad aprile 2008.
Il primo è molto scivoloso, la giustizia che molto preme al premier, ma che con il ddl intercettazioni era finito su un binario morto rispetto alla riforma dell’ordinamento.
Il secondo è il federalismo, che per la Lega è assai più di un mero punto tra gli altri, è la ragione stessa costitutiva dell’alleanza con Berlusconi.
Il terzo è il fisco e la finanza pubblica, che devono restare su un binario stretto: una rotaia dritta agli impegni di contenimento del deficit già assunti e apprezzati dall’Europa, l’altra coerente all’impegno assunto dal 1994 di abbassare le imposte su imprese e lavoro, attraverso un’organica riforma generale del sistema tributario.
Ma è il quarto punto, quello sul quale Berlusconi, Bossi e Tremonti sono chiamati a uno sforzo aggiuntivo, rispetto alla moderazione dei toni e alla precisione chirurgica necessarie sugli altri tre.
Il quarto punto è il Mezzogiorno.
Ed è proprio sul Mezzogiorno, che Fini e Futuro e Libertà puntano le carte politicamente più promettenti della propria strategia: sia essa nel centrodestra se ve ne saranno ancora le condizioni, oppure fuori e con una diversa alleanza da proporre agli elettori, se la coesistenza con Berlusconi dovesse risultare impraticabile.
Il Sud è l’asso che Fini ritiene di avere nella manica non solo perché il più dei suoi è elettoralmente radicato nel Mezzogiorno, dove alle Regionali il centrodestra ha conquistato Campania e Calabria.
Ma perché tutti i sondaggi mostrano che l’elettorato del Sud è convinto a grandi numeri che davvero sinora nell’agenda del governo Berlusconi sia stata sin qui preminente l’attuazione di un federalismo in chiave di vantaggio nordista.
Non ha importanza che i numeri concreti manchino ancora nel decreti delegati, per stabilire i costi standard per Regioni Province e Comuni.
Nei sondaggi quel che conta è che il Sud mostra di dare non poco credito e seguito, a chi afferma che Berlusconi, Bossi e Tremonti siano una trinità antimeridionalista.
Di conseguenza il capitolo del Mezzogiorno potrebbe risultare davvero quello decisivo, per un’intesa di mezza legislatura capace di dare vita aggiuntiva e operativa al governo.
Se questo è vero, significa però che potrebbero non bastare, i numeri molto importanti che in questi giorni circolano a proposito delle risorse che il governo riorienterebbe verso il Mezzogiorno.
Le cifre sono infatti fin troppo impressionanti, visto che sommando i residui dei fondi di coesione e strutturali europei 2000-06, quelli - la parte preminente, per le Regioni - ancora non spesi del quadro 2007-013, nonché i fondi FAS fin qui non ancora drenati dal governo, si arriva addirittura agli 80 miliardi di euro.
E’ il ministro Fitto che alacremente, da qualche settimana, è subentrato allo Sviluppo economico nel tentativo di stabilire una cabina di regia per questi fondi entro fine settembre a palazzo Chigi. Sono risorse “impressionanti” perché il problema di sempre, al Sud, non è quello delle risorse come si crede, quanto di saperle spendere davvero, in tempi rapidi e con procedure “sorvegliate”, concentrandole su opere infrastrutturali e interventi davvero prioritari e non sparpagliandole assistenzialmente a pioggia.
A questo si riferiva Tremonti, quando, rivolgendosi agli amministratori locali meridionali, si lasciò sfuggire di bocca quel “cialtroni” che Fini ha considerato benzina per il suo motore.
Ma per un patto solido con Fini e i suoi non è solo e tanto l’ammontare delle risorse, a poter fare la differenza.
Per Berlusconi, Bossi e Tremonti - e Fitto, naturalmente - ciò che sino a ieri era impensabile è che a questi 80 miliardi di risorse che non sono deficit aggiuntivo si debba aggiungere anche qualcosa in più.
E cioè che sia un rappresentante di Futuro e Libertà nel governo, ad assumersi direttamente la responsabilità dell’attuazione del piano straordinario “risorse per il Sud”, a trattare con le Regioni, e a far da contraltare con tutti i gangli dell’amministrazione centrale competenti a sbloccare le risorse.
È comprensibile che nel Pdl, per il peso dei voti raccolti al Sud a prescindere dall’onorevole Fini, la tentazione di fermarsi all’offerta del piano e delle risorse sia molto forte.
Ma temo la diffidenza sia a un punto tale che solo l’offerta a un finiano di diventare il mister Sud dell’alleanza, equilibrando Calderoli al federalismo e con Tremonti in posizione centrale, potrebbe davvero risultare decisiva nel ridare almeno inizialmente al centrodestra un supplemento di vitalità.
“I cari estinti”, nuovo libro di Gianpaolo Pansa, la verità sulla Prima Repubblica
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In libreria il nuovo libro del giornalista e scrittore Giampaolo Pansa. Già dal titolo, “I cari estinti” ( editore Rizzoli, pagine 502, 22 euro), è possibile intuire che la nuova fatica di Pansa darà la stura ad un ampio e vivace dibattito di carattere storico e politico. Pansa ritrae infatti i politici della Prima Repubblica, da Rumor a Fanfani, da Moro ad Andreotti, da Berlinguer ad Almirante e Craxi ripercorrendo il tempo del terrorismo, del ciclone P2, dello scontro tra comunisti e socialisti.
Ed è indicativo e non casuale che in un articolo di presentazione de “I cari estinti”, comparso su Il Messaggero, Giampaolo Pansa si soffermi proprio sul capitolo dedicato a Bettino Craxi, cui sono dedicate molte pagine.
« Il libro è fondato soprattutto – scrive Pansa – sui miei ricordi di giornalista. Ho scelto di narrare i big politici che ho conosciuto bene in tanti anni di lavoro per La Stampa, il Giorno, il Corriere della sera, la Repubblica e per due settimanali, l’Espresso e Panorama». «Ma Craxi – precisa Pansa – l’avevo incontrato quando entrambi frequentavamo l’università. Al tempo dei parlamentini studenteschi, poi cancellati dal sessantotto. Eravamo quasi coetanei, Bettino del 1934 , io del 1935. Dunque il mio racconto, ed il mio giudizio su di lui, si fondano su una grande quantità di osservazioni, di colloqui, di interviste, di cronache dei congressi socialisti. Un patrimonio professionale acquisito lungo un quindicennio, a partire dalla metà degli anni Settanta. Il giorno che Craxi diventò segretario del Psi, nel luglio del 1976, anch’io stavo al Midas Hotel di Roma come inviato del Corriere. Ed ebbi subito il modo di comprendere quale sarebbe stata la sua strategia per il futuro. Era basata su due constatazioni quasi banali. Entrambe dettate dai risultati delle elezioni politiche di quell’anno. La prima era che il Psi, guidato da Francesco de Martino, aveva portato a casa un bottino molto modesto, appena il 9,6 per cento dei voti. E rischiava di ridursi ad una piccola parrocchia, fatalmente attratta dall’espansione comunista. La seconda riguardava l’esistenza di due partiti dominanti, la Dc ed il Pci. Insieme la Balena Bianca e l’Elefante Rosso possedevano il 73 per cento dei voti. Dunque rappresentavano un potere quasi assoluto».
La storia di Pansa relativa a Craxi ne ripercorre poi tutte le tappe fino a Tangentopoli ed all’esilio volontario di Hammamet. «Ancora oggi – conclude Pansa- molti credono che sia stato l’unico corrotto della politica italiana. Il mio libro spiega che non è così. E conferma che un po’ di onesto revisionismo non serve soltanto a ristabilire la verità sulla guerra civile, ma anche sulla Prima Repubblica ».
Come si può arguire le polemiche non mancheranno.
Questi rubano ancora peggio di Dc e Psi
Da il Fatto Quotidiano del 14 febbraio
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di Giorgio Bocca: forse le persone stanno iniziando a stancarsi
intervista di Marco Travaglio
Giorgio Bocca, lei ha appena scritto Annus Horribilis (Feltrinelli): ma si riferivaal 2009. Il 2010 si annuncia ancora più horribilis…
Vedremo. Il 2009 mi è sembrato il più orribile per una tendenza irresistibile alla democrazia autoritaria. Più Berlusconi ne combinava di cotte e di crude, più i sondaggi lo premiavano. Ora, con questi ultimi scandali,la gente potrebbe cominciare a stancarsi e capire qualcosa.
Quindi c’è speranza?
Non esageriamo. Qualche barlume. E’ come all’inizio della guerra partigiana, ma allora ero giovane e forte dunque fiducioso. Ora sono vecchio e fragile, mi è più difficile essere ottimista. La cecità degli italiani mi ricorda la Germania all’ascesa di Hitler: tutti potevano vedere che tipo era, Hitler, eppure i tedeschi, e anche gli europei, gli cascarono tra le braccia come trascinati da un vento ineluttabile.
Che cosa la spaventa di più?
Il muro di gomma. Succedono cose terribili, o terribilmente ridicole, e nessuno reagisce. Lanci allarmi, provocazioni anche forti, e non risponde nessuno. Come dicono i giudici dello scandalo Bertolaso? “Sistema gelatinoso”. Ecco, è tutto gelatinoso. Non resta che sperare, come sempre nella nostra storia, in qualche minoranza coraggiosa che cambi la storia.
Che cosa la colpisce di più negli ultimi scandali?
La loro incomprensibilità. Leggo la confessione di questo consigliere comunale di Milano beccato con la tangente in mano: “Mi sono rovinato per 5 mila euro”. O è un pazzo incapace di ragionare, o faceva sempre così. Almeno Berlusconi ha le sue giustificazioni: è ricco sfondato, ha ville dappertutto. Almeno Tangentopoli era un sistema di corruzione che portava almeno una parte dei soldi ai partiti: una logica, sia pure perversa e criminale, c’era. Ma qui i partiti non ci sono più. E questi si vendono in cambio di qualche massaggiatrice, di qualche viaggio gratis, di pochi spiccioli…La corruzione dilaga a tal punto che c’è gente che ruba senza nemmeno sapere il perché.
Anche Tangentopoli, 18 anni fa, partì da una mazzettina di 7 milioni a Mario Chiesa.
Andai a intervistare Borrelli e gli domandai perché i magistrati fossero riusciti a scardinare il sistema così tardi. Mi rispose che la magistratura in Italia riesce a incidere nel profondo solo quando nella società c’è un grande allarme, quando si accende una grande luce. Oggi la luce non si accende, non ancora. Ce ne sarebbero tutti i presupposti, la corruzione ci costa decine di miliardi all’anno, siamo in fondo alle classifiche di tutti gli indicatori civili, scavalcati anche da metà del Terzo Mondo, eppure tutto va ben madama la marchesa.
Possibile che, in Italia, le classi dirigenti non riescano a smettere di rubare?
Quando esplose Tangentopoli, a costo di essere frainteso, dissi che i gerarchi fascisti rubavano molto meno dei democristiani e dei socialisti. Arrivai a elogiare i “barbari” della Lega che ce li avevano tolti dai piedi. Ora questi rubano ancor più della Dc e del Psi. E lo fanno alla luce del sole, con trucchetti da ciarlatani: invitiamo i capi del mondo al G8 e buttiamo centinaia di milioni. Ma non possono farsi una telefonata, i capi del mondo?
Paolo Mieli dice che sta per saltare il tappo, come nel ’92.
Eh eh, Mieli è un mielista, furbo ma intelligente. Siamo in attesa della grande luce di Borrelli. Forse Berlusconi finirà per stancare, ma siamo ancora all’accecamento della morale: quegli imprenditori che si fregano le mani per il terremoto dicono che la febbre del denaro è ancora alta. E’ come nella Bibbia: Mosè che scende dal Sinai con le tavole della legge e trova gli ebrei che festeggiano attorno al vitello d’oro. Noi li abbiamo superati.
Che idea si è fatto di Bertolaso?
Non credo che abbia rubato di suo, ma che abbia lasciato rubare gli altri. Quando si vuol fare tutto in fretta, si aboliscono i controlli e succede di tutto. L’ha perduto la vanità: si credeva Superman, uno che va a dare lezioni agli americani…Non era difficile capire cosa succedeva. Se gli italiani fossero raziocinanti gli avrebbero impedito di buttare i soldi in tante opere inutili.
Forse, con più informazione e più opposizione, sarebbe più facile ribellarsi.
La cosa più deprimente è la lettura dei giornali, per non parlare della televisione. La nostra democrazia diventa autoritaria anche perché ci sono giornalisti comprati con prebende e privilegi, ma soprattutto terrorizzati. Incontro colleghi, si finisce per parlare di quel che combina Berlusconi, e quelli cambiano subito discorso. Se diventi nemico, sei segnato. Tu ce l’hai spesso col Corriere: credo che la carta stampata sia rimasta democratica, ma ha paura di lui. Si inventa di tutto, pur di parlar d’altro: chiamano ‘terzismo’ il doppiogiochismo. Dicono persino che, a parlar male di Berlusconi, si fa il suo gioco. Ma a chi la danno a bere?
Lei guarda molta televisione?
Sì, ho il gusto dell’orrido. E’ una galleria di mostri. Non riesco a levarmi l’incubo di Feltri, Belpietro, quel Sallusti…E le facce di Ghedini, di Brunetta…Quando li critichi, ti rispondono che sei un vecchio arteriosclerotico. Ma come si fa a diventare così?
La beatificazione di Craxi, i dossier su Di Pietro e ora l’immunità parlamentare d’accordo col Pd.
Beh, è tutto collegato. E’ la complicità fra colpevoli delle due parti. Di Pietro lo attaccano perché ha il merito di essere l’unica opposizione. Craxi piace tanto a questa destra e a questa sinistra per due motivi: intanto perché era un corrotto, e poi perché, con l’idea della Repubblica presidenziale, ha dato un’ideologia alla democrazia autoritaria che questi selvaggi di oggi inseguono ma non riescono nemmeno a teorizzare. Questa democrazia malata la dobbiamo pure a questa sinistra alla D’Alema che collabora da 15 anni con Berlusconi. Hanno capito che, se non partecipano in qualche modo alla sua greppia, non campano più.
Dicono che non bisogna attaccarlo, che i problemi sono altri.
E quando ne parlano, degli altri problemi? Allora almeno parlino male di un aspirante tiranno, no? Prima avevamo i Bobbio, i Foa, ora che fine han fatto gli intellettuali di sinistra? Possibile che non nascano più persone intelligenti?
Violante si spende molto per l’immunità parlamentare, dice che la magistratura non deve scalare il trono del principe.
Perché lo fa? Boh, vorrà fare carriera anche lui. Che personaggio viscido, non lo sopporto.
Il presidente Napolitano non le pare troppo condiscendente?
Va considerato nella sua biografia. E’ sempre stato un comunista prudente. Vuole durare, e non so se sia un bene o no. Ogni tanto tira un colpetto, ma chiedergli di fare l’eroe è troppo.
Che speranza abbiamo?
Che la gente si accorga del suicidio di farsi governare da uno abilissimo a fare soldi: quello i soldi, invece di darteli, te li porta via. Che gli italiani si vergognino almeno per le sue cadute di stile, tipo gli sghignazzi sulle belle ragazze mentre parla del dramma degli immigrati col presidente albanese. Che capiscano come un minimo di decenza e legalità è meglio di questa anarchia lurida. Non dico la virtù, l’onestà: un po’ di normalità e di civiltà. L’unica bella notizia degli ultimi anni è il popolo viola, spero che le prossime manifestazioni siano ancora più massicce e visibili. Se si ribellano i ragazzi, non tutto è perduto.
IL PD E IL PROGRESSIVO DISTACCO DEGLI ESPONENTI CATTOLICI
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avvenire del 16 febbraio 2010
La strana sufficienza del «partito del secolo»
di SERGIO SOAVE
L a sofferta decisione di Paola Binetti di lasciare il Partito democratico per aderire all’Udc ha suscitato freddi commenti burocratici nel vertice e un irrefrenabile moto di soddisfazione nei settori più laicisti di quel partito. Com’è noto Binetti aveva più volte chiesto che il carattere pluralistico e accogliente del Pd venisse effettivamente espresso nelle scelte politiche concrete, ma la sua richiesta è stata ignorata anche nel momento di massimo dissenso, quello originato dall’accodamento dei democratici all’autocandidatura della leader radicale Emma Bonino alla guida della regione Lazio.
Lo stillicidio di personalità di cultura cattolica che abbandonano il Pd ormai rappresenta un elemento permanente del nostro panorama politico, che ha nella scelta di Paola Binetti l’ultima – nel senso di più recente – conferma. Il fatto che questo fatto non venga considerato un problema ai piani alti del partito, con Pierluigi Bersani che, dopo aver espresso il suo dolore di circostanza, parla di nuove acquisizioni che faranno del suo, addirittura, «il partito del secolo», è piuttosto sorprendente.
Da quando è stato progettato nei congressi paralleli dei Ds e della Margherita, il Partito democratico ha già subito altri abbandoni o secessioni preventive. In quei casi, come la scissione promossa da Fabio Mussi e altri esponenti della sinistra dei Ds, nessuno espresse giubilo, nemmeno tra le file della Margherita. Al contrario, parve grave che nella fase di costruzione di un contenitore pluralista, come sono in sostanza tutti i grandi partiti occidentali, venisse meno una componente, per quanto collocata su posizioni piuttosto eccentriche rispetto all’asse riformista dato come fondamentale. Nei confronti, invece della secessione di esponenti moderati o cattolici, già più di una mezza dozzina solo tra i parlamentari, pare si riscontri, nel migliore dei casi, un disinteresse colmo di sufficienza. A questo si aggiunge un diffuso dileggio incomprensibile (o fin troppo comprensibile…) nei confronti dell’Opus Dei, ai funerali del cui fondatore avevano invece partecipato con rispetto e commozione esponenti della sinistra, dal leader storico Massimo D’Alema a Cesare Salvi, riferimento dell’area più legata al radicamento ’socialista’ dei Ds.
Quella che Binetti denuncia come «deriva zapaterista», anche se forse non coinvolge l’intero partito, si presenta come una tendenza rilevante e forse prevalente nel Partito democratico, che ovviamente non esclude gli apporti cattolici, ma rifiuta di fatto una loro pari dignità che può essere garantita solo dal limpido e pieno rispetto della libertà di coscienza nelle scelte che hanno un oggettivo rilievo etico.
C’è chi pensa che in questo modo si realizza un progetto strategico attribuito a Bersani, quello di lasciare fuori dal partito i settori moderati e cattolici, per poi recuperarli ‘dall’esterno’ con un’alleanza organica con l’Udc. Però è proprio sul terreno delle alleanze che si sono determinate le condizioni per l’abbandono di Binetti e di altri. Una tattica studiata a tavolino, che pensa di poter spostare le truppe come in un gioco di soldatini di piombo, trascura la soggettività delle scelte politiche, che è poi il connotato fondamentale della libertà in generale e dell’agibilità effettiva di una formazione che si autodefinisce come presidio fondamentale della democrazia.
C’è chi deve essere protetto…..
Spezzoni del discorso in parlamento del 92, processo del 93, intervista ad Hammamet del 97
AUGURI NAPOLI, CAPOdanno zero!
L’ultimo giro di valzer
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di Mimmo Carratelli - fonte La Repubblica Napoli -
In Piazza Plebiscito, l’ultimo giro di ballo del Governatore.
Ultimo capodanno dell’uomo sodo al comando da 16 anni. L’Uomo Regno. Musiche e musicanti. Sonetto commemorativo del Carducci: “L’Arbore cui tendevi la pargoletta mano, il pugliese che canta napoletano, e tu, governatore, che fai il baciamano”. Cascetta: “E’ uno di quei giorni che ti prende la malinconia”.
Rosetta: “Vita da vita mia te sto perdenno”.
L’opposizione bieca: “Chi si’? Tu si’ ‘a canaglia ca pure quanno more si sente vincitore”.
Canta Antonio: “Santa Lucia s’alluntana, quanta malinconia, partono ‘e primarie pe’ tramente, cantano a buordo ed è la nuova classe dirigente”.
Coro: “Antò e mo che faje, te giri ‘o munno sano, vai a cerca’ fortuna, ma quanno sponta ‘a luna te miette a chiagnere ca vo’ turnà”.
Sul blog del Governatore, peste e corna per coloro che l’hanno abbandonato. Spero, promitto e Giuda. Addio, mio bello, addio, l’Armato se ne va. Massimo Paolucci: e se non partissi anch’io sarebbe una viltà. Cuori ingrati.
Non c’è più niente da fare, è stato bello sognare, la Coppa America a Bagnoli, il Rinascimento, i vari e pindarici voli. Un uomo, un mito nella piaga (di Napoli). In piazza, l’addio musicale.
E dopo mezzanotte si spengono i fanali dell’arte concettuale, e solo se ne va un uomo in flop.
Ha un Veltroni per capello, e D’Alema per ombrello, tutto il gelo di Fassino contenuto in un secchiello, Franceschini ciento mosse (pur’’e pulice ténono ‘a tosse), Marone sempre quello, fedelissimo morello, la Regione nell’occhiello, Geremicca per ripicca, Nicolais che si ficca, Isaia Sales che si picca di giocare a Pietro Micca, e Barbieri tra i ribelli, l’Incostante una di quelle che son scese da cavallo, con un rosso Cabernet vi saluta il vicerè. E’ la fine di un’epoca.
Cameriere, champagne.
Il futuro frugale che ci aspetta
rassegna stampa
di MARIO DEAGLIO
I sistemi economici non muoiono per malattie economiche, le Borse non possono continuare a cadere per sempre: dopo un certo periodo, la caduta produttiva si arresta e qualche forma di crescita riprende a seguito della pressione delle esigenze vitali della popolazione. Dopo le guerre e le più dure crisi finanziarie, i peggiori crolli di produzione e Borse sono stati nell’ordine del 40-50 per cento. Nella crisi attuale le autorità monetarie e di governo hanno fatto tesoro delle esperienze degli Anni Trenta e sono riuscite, «pompando» immani risorse nel sistema finanziario, ad arrestare, nella maggior parte dei Paesi avanzati, la contrazione del prodotto interno al 5-6 per cento e quella della produzione industriale al 15-25 per cento. Gli indici di Borsa, precipitati per un brevissimo periodo circa un anno fa, sono oggi di circa il 20-25 per cento sotto i massimi storici e continuano timidamente a risalire.
Tutto ciò può sembrare un discorso consolatorio di fine anno sulla bravura di chi governa le principali economie mondiali, e invece proprio non lo è. Non c’è, infatti, molta relazione tra la bravura necessaria per tenere in vita il malato e quella per farlo guarire. Un medico bravo nel primo caso non è necessariamente bravo nel secondo e qualche segno di scarsa abilità nel gestire un rilancio credibile a livello mondiale sta cominciando ad affiorare.
I più importanti di questi segni sono la scarsa attenzione, anche politica, al peso che potrà avere la disoccupazione e, per contro, l’eccessiva attenzione statistica al momento in cui la ripresa comincia a manifestarsi e la trascuratezza per le garanzie effettive che uno-due trimestri di ripresa molto pallida possano consolidarsi. Si è largamente sperato che, come altre volte in passato, una volta ripartita, la produzione rimbalzasse rapidamente all’insù come un elastico, secondo l’immagine usata da Friedman. Queste speranze per ora sono andate deluse.
Almeno tre alternative oggi trascurate (apparentemente pessimistiche ma purtroppo realistiche) per l’evoluzione del prossimo anno vanno esaminate con serietà: la prima è che l’economia globale possa continuare a vegetare invece di tornare a crescere, portandosi dietro un numero crescente di affamati, oggi già più di un miliardo; la seconda è che le sue prospettive di crescita possano risultare stabilmente modificate in peggio dopo un ingannevole guizzo di ripresa; la terza è che la massa di risorse finanziarie messe in circolazione possa trasformarsi in altrettanto «veleno» e stimolare una grave inflazione planetaria. E ce n’è abbastanza per essere molto cauti. Per questo, in un finale d’anno ancora segnato dall’incertezza nonostante i progressi compiuti, oltre alla cautela è necessario un allargamento della visuale rappresentata dagli indici di Borsa di breve periodo. L’economista oggi non può chiudersi nel suo ufficio a macinare su un computer numeri - spesso di dubbia validità - né tanto meno lo può fare l’analista finanziario. Occorre invece ampliare il campo di osservazione estendendolo ai segnali extra-economici che possono interferire con l’economia.
Nel cercare di fare previsioni, non possiamo chiudere gli occhi di fronte allo spettacolo di un’amplissima area, che va dall’Afghanistan e dal Pakistan fino alla Somalia, dove la globalizzazione è sulla difensiva e non sta certo accumulando vittorie né economiche né militari; il che proietta un’ombra sulla stabilità dei vitali rifornimenti di petrolio provenienti da quell’area e sul prezzo delle altre materie prime. E nascondiamo la testa nella sabbia se dimentichiamo che, in questo inverno duro e anomalo, i prezzi di molte materie prime agricole hanno già ripreso a salire fortemente: tè, cacao e zucchero fanno registrare record storici e tale tendenza potrebbe diventare generale sotto la spinta della crescente domanda dei Paesi emergenti e delle difficoltà, legate anche all’instabilità climatica, di espandere in maniera sensibile l’offerta.
Un altro potente segnale di instabilità deriva dall’attentato a un aereo americano nel giorno di Natale. Per quanto fisicamente fallito, ha raggiunto l’obiettivo di far dirottare immediatamente ulteriori risorse dalla produzione alla sicurezza. Rispetto a una settimana fa, oggi viaggiare in aereo costa di più in termini di tempo (in America per ottemperare alle nuove misure l’aspirante passeggero deve arrivare all’aeroporto quattro ore prima della partenza) e sicuramente tra poche settimane l’aumento nei costi di prevenzione degli attentati si ripercuoterà sul prezzo dei biglietti. Si noti bene che accettiamo non solo di pagare di più ma anche di essere meno liberi: chi vuol volare in America deve acconsentire a farsi fiutare dai cani, essere disposto a togliersi le scarpe e quant’altro e i cittadini americani hanno già accettato che la loro corrispondenza elettronica possa essere legalmente letta dai servizi di sicurezza.
Tutto ciò deve indurre a un atteggiamento più sobrio e più responsabile al posto di una fiducia quasi caricaturale in una ripresa indolore e con pochi problemi che ci riporti al precedente Regno di Bengodi. E’ degno di nota che alcuni operatori finanziari hanno prefigurato un «futuro frugale» (Merrill Lynch) e una «nuova normalità» (la Pimco, società di gestione di fondi), ossia un assetto sociale che sostanzialmente non può più permettersi le sicurezze e le opulenze di qualche anno fa. The Economist e altri periodici di grande influenza discutono in termini non certo trionfalistici su ciò che può avvenire dopo la tempesta. Tutto ciò trova un contrappunto in numerose, autorevoli voci non economiche che parlano di «sobrietà» necessaria nei Paesi ricchi e non solo in campo economico; in questo contesto occorre segnalare, tra le altre, le parole del Presidente della Repubblica e quelle del Pontefice. Insomma, non se ne può proprio più dell’attenzione spasmodica a listini azionari che rappresentano sempre meno la realtà dell’economia e a dati statistici destinati a essere corretti, in genere in peggio, nel giro di poche settimane. Si può però ragionevolmente sperare che il Nuovo Anno porti a nuove cautele e più ampi orizzonti, a nuovi progetti di crescita mondiale da attuarsi in tempi medio-lunghi, meno squilibrati di quelli di un passato recente.
Una sinistra ancora in parte subalterna all’uso della violenza
rassegna stampa
da Il Riformista del 16 dicembre 2009
di Ritanna Armeni
Si può essere di sinistra e avere un moto di pietà, di fronte al volto insanguinato di un avversario? Si può essere fieramente e radicalmente avversi a un progetto politico e rimanere sgomenti se chi lo incarna è fatto oggetto di violenza? E, infine, si può continuare a criticare con tutta l’energia possibile una linea politica, una strategia e una proposta e poi essere solidale con chi la persegue se questi si trova in un momento di fragilità?
Sono quasi sicura che chiunque a sinistra, di fronte a queste domande risponderebbe affermativamente. Sono anche preoccupata per il fatto che di fronte a un fatto concreto, il ferimento di Berlusconi molti, non pochi, hanno mostrato un atteggiamento diverso. Di che tipo? Le reazioni a caldo sono state varie e a 48 ore dall’ incidente di piazza Duomo mi pare di poterne riportare almeno quattro. La prima la posso definire di pensosa preoccupazione. Non per il ferito, ma per la situazione politica che il ferimento di Berlusconi determinava: la possibilità di un ricompattamento della maggioranza, un indebolimento dell’opposizione, un rafforzamento delle posizioni del premier. Tutte preoccupazioni naturali, ovviamente, e sulle quali ci si interrogherà nei prossimi giorni, ma sorprendentemente prive di ogni sgomento e di ogni emozione a qualche minuto dall’aggressione. La seconda possiamo definirla della relativizzazione o minimizzazione e se ne è fatta infelicemente portavoce una donna solitamente intelligente e appassionata come Rosy Bindi. Il premier - si è detto - non faccia la vittima, sono cose che capitano a un uomo pubblico che fa un bagno di folla. E poi - sempre nella linea della minimizzazione - si è trattato di un pazzo, un isolato che con lo scontro politico e il clima del Paese non c’entra nulla. Anche in questo caso, curiosamente, gli effetti pesanti, non simbolici, dell’aggressione: una ferita al volto, due denti spezzati e un naso fratturato, scompaiono.
Viene un certo imbarazzo a definire il terzo atteggiamento che potremmo definire “complottista”. In poche parole si avanza il sospetto che qualcuno abbia organizzato il tutto per creare solidarietà attorno a Berlusconi, per ricompattare il suo popolo e la sua maggioranza. C’è poi una quarta reazione che non si è ancora pienamente espressa, ma che nei prossimi giorni sicuramente si manifesterà sui giornali e nei talk show e che possiamo definire di “vittimismo”. Essa è sintetizzabile così: ecco qui, ora noi dell’opposizione non potremo più parlare e criticare con forza, con durezza, perché il premier ha passato tre notti in un ospedale. Ancora una volta la libertà di critica e di espressione viene messa a tacere. Non so francamente quanto questi atteggiamenti e queste reazioni corrispondano a un reale sentire e quanto invece siano, mostrati ed esibiti per esprimere un’irriducibilità al nemico. Ma è poco importante. È importante, invece che essi siano stati assunti, che queste siano le frasi usate nelle conversazioni, nei commenti, nelle battute di una parte. E che, contemporaneamente molti a sinistra abbiano negato ogni accenno allo sgomento, alla solidarietà, alla pietà o, semplicemente, all’emozione.
Perché in parti non marginali del popolo e degli intellettuali della sinistra sono presenti gli atteggiamenti che ho appena descritto? So bene che quasi sicuramente, queste forme di reazione si potrebbero constatare in una situazione simile anche a destra ma questo non è un buon motivo per non interrogarsi. Buona parte degli osservatori politici ritiene che essi siano propri di una sinistra che fa riferimento a un giustizialismo senza se e senza ma, a una politica fondata sulla demonizzazione dell’avversario e sulla personalizzazione che peraltro riconosce dall’altra parte, a destra, protagonisti altrettanto radicalizzati. I giornali di destra poi vanno oltre e puntano il dito, fanno i nomi dei responsabili: Di Pietro, Travaglio, Santoro, Il Fatto, Repubblica.
Non mi sento di essere d’accordo. Questa matrice culturale c’è sicuramente, ma le origini sono più lontane, le radici più profonde, la storia più antica. La radice forte è la subalternità nei confronti della violenza. Di fronte a un atto violento perpetrato nei confronti del nemico non è ancora maturato in questi decenni - che pure di violenza ne hanno vista tanta - un atteggiamento di reale, completo, indiscusso ripudio. All’opposto la violenza nei confronti dell’avversario politico, trasformato in nemico (oggi violenza verbale soprattutto e per fortuna) è il metro con il quale si pensa di misurare la volontà e la capacità di opposizione. La subalternità nei confronti della violenza è dannosa quanto la violenza stessa. Negli anni 70 e 80 i violenti veri e propri erano pochi, ma erano molti, moltissimi coloro che mantenevano dentro e fuori i grandi partiti della sinistra un atteggiamento subalterno, di tolleranza, di comprensione. Essa era qualcosa di cui magari non si era capaci, ma alla quale non ci si opponeva chiaramente e radicalmente perché indicava tutto sommato una passione, una dedizione alla causa. Essa, ad esempio, e non l’intelligenza delle forme di lotta è stata ritenuta per decenni la prova della capacità e della volontà di opporsi all’avversario di classe. Le lotte di liberazione nazionale e la Resistenza erano ancora vicine.
Ancora oggi evidentemente per molti è così. Le reazioni e gli atteggiamenti nei confronti del premier ferito, l’assenza o addirittura la vergogna di fronte ai sentimenti di pietà e di solidarietà umana non hanno altra spiegazione. Di recente lo storico Giovanni De Luna nel libro “Il corpo del nemico ucciso” spiega come l’atteggiamento nei confronti del corpo del nemico è anche un documento straordinario per conoscere l’identità del carnefice. Mi è tornato in mente questo concetto proprio in questi giorni. E si parva licet componere magnis (De Luna parla dei grandi conflitti mondiali e in questo caso parliamo di un episodio incomparabilmente più limitato) mi sono chiesta: che sinistra è quella che per esistere pensa di dover eliminare la pietà nei confronti del corpo ferito di un suo avversario?
E ho tirato un sospiro di sollievo quando ho visto Pierluigi Bersani che si recava al San Raffaele in visita a Silvio Berlusconi.