I dubbi del palazzo “dovevamo fermarci”
rassegna stampa
da Corriere della Sera del 14 dicembre 2009
di Francesco Verderami
Napoli Anno Zero ? «Lezioni di storia» ultimo atto -Le occasioni perdute del Novecento
rassegna stampa -fonte corriere del mezzogiorno-
all’auditorium della rai
Piero Craveri ha raccontato il Mezzogiorno dal ‘45 a oggi
NAPOLI - «La storia di Napoli dal 1945 in poi è storia di occasioni perdute». Piero Craveri inizia così la sua relazione, la decima e ultima del ciclo «Napoli. Lezioni di Storia» organizzata da Confindustria Campania e dal Corriere del Mezzogiorno all’Auditorium della Rai. «La seconda metà del ’900, a partire dal dopoguerra, è stata epoca di profonde trasformazioni che hanno mutato il volto della città e anche i problemi che si trova di fronte. In pochi decenni si è creata una discontinuità col passato, che non è disconoscimento della sua storia, ma mutamento del contesto in cui opera, della stessa struttura interna, modificata e squassata ».
L’ARMONIA PERDUTA - E poi una citazione da Raffaele La Capria: «Lo scrittore ha parlato dell’‘‘ armonia perduta’’ con l’omologazione agli standard della vita nazionale, come fenomeno negativo in quanto perdita di identità. Anche se non tutti gli standard da lui citati sono stati conseguiti positivamente. L’armonia è un processo etico e civile connesso intrinsecamente alle donne e agli uomini che vivono in una determinata società, e in quanto tale si riflette sull’ambiente circostante. Se si perde, va riconquistata in termini nuovi, attraverso un procedimento per quanto doloroso, costante e continuo. I processi di trasformazione sempre più rapidi non annullano le identità, che anzi fanno la differenza in temini di capacità di crescita e sviluppo». Non era semplice il compito di Craveri, perché se, per dirla con Benedetto Croce (che dello storico è il nonno) la storia è sempre contemporanea, quando lo è davvero, con tutti i suoi addentellati con la cronaca e la vivissima attualità, allora la temperatura del discorso si fa per forza più alta.
DA GAVA A BASSOLINO - E se n’è accorto il pubblico che, mentre il professore restituiva la sua lucida analisi sul recentissimo passato fino al presente, vedeva scorrere sullo schermo fotogrammi ancora vivi nella memoria: dalla devastazione del dopoguerra al terremoto dell’Ottanta. E i volti: da Silvio e Antonio Gava ad Antonio Bassolino. «Una storia in cui», ha detto Craveri, «tranne nella stagione dei sindaci che ha segnato la nascita di una nuova speranza non solo a Napoli, ma forse soprattutto qui, la costante è stata lo scarso municipalismo, come ha detto Paolo Macry prima di me». Eppure «il Comune di Napoli comunque non dovrebbe essere più il riferimento primario e, dal punto di vista istituzionale, è indispensabile ragionare in termini di area metropolitana. Nel 1990 Antonio Gava, allora ministro per gli Interni, varò una legge che rendeva possibile la creazione di un’autorità metropolitana. Era una legge soprattutto per Napoli. Non se n’è fatto nulla. Forse perché un tale progetto implica la risoluzione dei poteri comunali nella nuova istituzione » . Come Galasso per gli anni postunitari, così Craveri per quelli postbellici parla di un rigoglio culturale che fiorì dalle macerie di una devastazione enorme. «Si ricordi almeno che Napoli aveva perduto il suo simbolo più importante, il monastero di santa Chiara».
ORTESE E GLI INTELLETTUALI - La letteratura e il teatro: «importanti intellettuali che si trasferirono però a Roma o Milano e che Anna Maria Ortese, in Il mare non bagna Napoli, coglie crudelmente in questa ondivaga situazione psicologica in cui si frantumava il mito della napoletanità. La cultura manteneva un profilo alto che conserva nelle università. A Portici c’era la facoltà di Agraria di Manlio Rossi Doria e, a Napoli, Croce fondò l’Istituto di Studi storici da cui uscì una schiera di giovani come de Caprariis, Romeo, Giordano e lo stesso Galasso che si raccolsero nella metà degli anni Cinquanta intorno alla rivista Nord e Sud di Francesco Compagna. Misero a fuoco tre temi: la politica per il Mezzogiorno, la discussione per la costruzuione di una nuova democrazia con la quale rinnovarono la cultura liberale e la conseguente polemica con i comunisti».
LAURO E LE SPARTIZIONI - Poi «l’escalation di Lauro e la creazione del sistema di potere che spezza il vecchio modello del notabilato clientelare». E l’ossatura è questa: «Bisogna essere potenti a Roma per avere forza localmente. Il tutto senza alcun progetto di sviluppo. E se c’è un vuoto legale, questo viene occupato illegalmente». Fatti, catastrofi (e analisi degli stessi) con una continuità: «Il modello spartitorio a oltranza, al quale nessuno postula un’alternativa basata sulla dignità della politica».
Natascia Festa
Carloni: a Castellammare i Ds non vollero la svolta
rassegna stampa
venerdì, dicembre 4, 2009
di Simona Brandolini da il Corriere del Mezzogiorno -
In un angolo della buvette di Palazzo Madama, la senatrice democratica Annamaria Carloni tiene stretto un piccolo taccuino su cui si è appuntata pezzi di riflessione su Castellammare. Per dieci mesi, in una stagione ormai lontana, un lustro in politica è un’era glaciale, è stata assessora al Bilancio. La giunta era quella di Ersilia Salvato. «Giuramento contro la camorra o manifesto di intenti mi sembra comunque, quello scelto dal Pd stabiese, un atto simbolico necessario. In un contesto così complicato ha un senso, certo un senso estremo, ma è giusto drammatizzare».
Oggi nella sezione di corso Vittorio Emanuele è ripartito il tesseramento del Partito democratico, in una città dove l’ombra della camorra incombe su politica e amministrazione. Un caso, chiariamolo, non certo isolato in Campania. Ma a Castellammare è esploso in un pomeriggio di febbraio, quando è stato ucciso il consigliere comunale del Pd Luigi Tommasino. E il suo killer, si è scoperto poi, era iscritto nella stessa sezione di partito. E proprio lì si è recata ieri Libera Tommasino, la vedova del consigliere: «Questa è una pagliacciata» ha detto al commissario Persico. Tra le lacrime: «Dove sono gli altri dirigenti che non hanno il coraggio di guardarmi negli occhi?». La signora Tommasino non si è iscritta.
Ma il Pd ha deciso che per ripulire le tremila tessere si passerà l’aspirapolvere del codice etico, del giuramento, degli elenchi pubblici. Questa volta nulla rimarrà sotto il tappeto, annunciano i dirigenti. Per la Carloni questa presa di coscienza collettiva assomiglia molto alle scelte del biennio stabiese della giunta Salvato.
Ci spiega perché?
«La scelta del giuramento compiuta dal commissario Persico si lega bene a un’esperienza altrettanto forte, appassionata e sfortunata come la sindacatura della Salvato. Sono passati cinque anni da quando Ersilia è caduta sotto i colpi del fuoco amico, ma nulla di buono è avvenuto nella città. Si sono aggravati i problemi e c’è una maggiore presenza della camorra. E ora il sindaco Vozza, a cui va tutta la mia solidarietà, ha un problema in più: cancellare il bollino della camorra da Castellammare».
Cosa aveva di diverso quella giunta di centrosinistra dalla precedente guidata da Polito e dall’attuale?
«Con l’elezione di Ersilia si era unita una parte della città fino ad allora fuori dai giochi, ci fu una rinascita tutta imperniata sul tema della legalità non come slogan, ma come rinnovamento dei comportamenti. Ma non fu capita né sostenuta quella ostinazione per un rinnovamento vero, che andava a rompere consuetudini della gestione».
A cosa di riferisce?
«Alle relazioni consolidate, ad un sistema, che la Salvato caparbiamente decise di modificare. Per esempio cambiò tutti i vertici e molte erano donne: il capo dei vigili, il direttore generale. Perché la critica ai partiti era di non aver aggredito il tema della legalità».
Chi non vi sostenne?
«I Ds, locali e provinciali. Ma anche Fassino tacque su quella vicenda. Ersilia Salvato fu dileggiata e attaccata. Si ridusse tutto a una questione di cattivo carattere, invece, il suo, era un carattere forte, necessario».
In che modo quella giunta fu avversata dai Ds?
«Cadde per un venire meno dei suoi consiglieri. Non la sostenevano, fu abbandonata e messa in minoranza. Il tema su cui è stata attaccata era il rinnovamento della politica e delle persone. Paradossale ».
Lei parla di sistema consolidato, cosa intende?
«Un modo opaco di gestione della cosa pubblica e un funzionamento opaco dei partiti. Mettere persone che non garantiscono gli equilibri di potere è una rottura del sistema. Non fare quello che il partito ti chiede è un taglio netto mal sopportato».
Questo vuol dire che l’amministrazione precedente fosse inquinata?
«No, c’erano persone perbene, ma non garantivano la trasparenza. Ci sono vari episodi che ricordo. C’era una delibera che tornava puntualmente in giunta: riguardava il rinnovo di un appalto risalente al 1923 per il cimitero. Questo vuol dire che c’erano gangli della burocrazia opachi. Un sistema incrostato».
Dopo due anni la Salvato gettò la spugna. A distanza che riflessione fa in base a quell’esperienza?
«Bisogna veramente cambiare metodi e persone, ci vuole radicalità morale. Senza idee e confronto si crea una zona in cui proliferano le forze criminali. Quando alla politica si sostituisce lotta per il potere interno si abbassano tutte le barriere. Per fortuna ora se ne parla nel Partito democratico e ringrazio Persico per questo».
A Castellammare come in gran parte della Campania il centrosinistra governa da più di quindici anni. Lei crede, come sta emergendo, che ci sia stata da parte del centrosinistra una sottovalutazione della camorra? Per anni è stata quasi cancellata dal dibattito, ora torna con prepotenza.
«Penso che negli anni della grande partecipazione democratica, nella stagione che va dal ’93 al ’96, ci sia stata anche un’azione giudiziaria molto forte contro la camorra. I capi erano stati presi. Il problema è che quella stagione è stata troppo breve. C’è stato un allentamento nella lotta alla camorra. Tante speranze, ma per esempio pochi risultati sul piano dell’occupazione. I fondi europei sono stati fondamentali per dotare di una rete di infrastrutture il nostro territorio, ma non hanno cambiato la struttura della società. E il fenomeno camorristico si è rimesso in gioco. Dobbiamo imparare che ogni atto politico deve essere misurato sul terreno della legalità. Ogni forma di condono è un problema serio. Dobbiamo ripensare il sistema degli appalti, ma anche il reclutamento elettorale. Siamo tanto affezionati alle preferenze, invece ci vogliono collegi più piccoli dove non servono migliaia di voti per essere eletti ».
Castellammare come esempio per la politica campana. Da dove ripartire?
«Bisogna rimettere in campo quei progetti di cambiamento. Anche quando falliscono hanno molto da insegnare. Abbiamo il dovere di riconsegnare queste zone ad una democrazia vera. Nel Pd in Campania deve essere possibile fare questo. Viviamo in tempi difficili, torbidi, bisogna puntare sulle forze più nuove, raccontare queste storie, fare un bilancio delle nostre esperienze. Un bilancio con onestà. Perciò mi sento di essere solidale con Vozza, ma non posso non ricordare che Salvatore è stato il grande avversario di Ersilia Salvato. Ersilia andava sostenuta con lealtà e fino in fondo, il fatto che non sia avvenuto, è stato il vero danno per quella città».
«Il consenso era interessato Serve una bonifica sociale» di Daniele Abbiati
Rassegna Stampa -il giornale.it
(n.d.r.presentiamo come rassegna stampa questo interessante articolo di Daniele Abbiati.
Ai lettori ci piace ricordare,in questa occasione,Napoli Anno Zero,conversazione metropolitana con Lucio Pirillo a cura di Corrado Castiglione ( Edizione INTRAMOENIA,Napoli 2009)
nel quale Lucio Pirillo sottolinea :
“Penso che il ceto politico campano debba confessarsi nel senso agostiniano: cioè riconoscere le responsabilità della sua storia di governo, alle quali risale in gran parte il mancato sviluppo culturale e civile del territorio.
C’è un filo che lega destra e sinistra, il notabilato tradizionale e progressista di Gava e Valenzi fino al recente compromesso di sistema costruito da Bassolino e Iervolino.
Alcuni dall’interno stesso del Pd hanno parlato di “dittatura rossa” come una volta si parlava di “amministrazione clericale”.
Ma la situazione è diversa.
Mi piacerebbe, comunque, che in questa specie di notte artificiale si intravedesse un’aurora dalla quale ripartire”.)
BUONA LETTURA!
La potenza della politica non è purtroppo pari a quella della storia». Antonio Bassolino usa queste parole per coprire con una pietra il fallimento della sua politica. Racchiudendo nello spazio di un avverbio, «purtroppo», l’essenza del ben noto fatalismo partenopeo. «Un fatalismo che soltanto ora riscopre - dice Marco Demarco, direttore del Corriere del Mezzogiorno -. Troppo facile diventare fatalisti dopo la prova del governo.
Troppo facile, soprattutto, trascinarsi dietro nel crollo l’intera città. Non va bene, è un’operazione scorretta. È come se si dicesse “non potevamo fare altrimenti”. Ma in questo trovo la permanenza dell’idea tipicamente comunista per cui il politico è una cosa sola con il popolo che lui rappresenta. No, invece, il destino dei governati dev’essere separato da quello dei governanti. Un politico moderato non si permetterebbe di accreditare i suoi errori e mancanze sul conto dell’elettorato».
Ma, ci si chiede, nel decennio di… fulgore bassoliniano, il popolo dov’era? Secondo Demarco «dal ’93 al 2004, cioè dall’elezione a sindaco alla faida di Scampia, la città ha vissuto in uno stato di sospensione dell’incredulità. Come al cinema, come a teatro, si assisteva allo spettacolo di una politica utopistica, illusionistica, dandole la fiducia che non meritava. In quel periodo, la camorra era come svanita, dissolta, azzerata».
Anche gli intellettuali erano al cinema paradiso bassoliniano? «Guardi, il Pci ha sempre avuto dell’intellettuale un’alta considerazione. Lo vedeva come un valore aggiunto. Penso in particolare alla cooptazione degli intellettuali nel governo della città fatta dal sindaco Valenzi. Ma poi il romanticismo va a rotoli. L’intellettuale torna a essere un rompipalle. E allora, se lo si “arruola”, gli si attribuiscono unicamente ruoli tecnici. L’intellettuale non è più politicamente, ma soltanto tecnicamente organico».
Intanto, il pregiudizio antimeridionale continuava ad assillare le coscienze del resto degli italiani. O no? «Il pregiudizio antimeridionale è un fatto storico, secolare - afferma l’autore di Bassa Italia. L’antimeridionalismo della sinistra meridionale (Guida) -. Ma se penso agli anni del boom economico, o alla Napoli della seconda metà degli anni Settanta - quello sì che era almeno un progetto di “rinascimento” -, ecco, devo dire che in passato s’era fatto qualcosa, per attenuare quel pregiudizio». Un pregiudizio che oggi pare di nuovo ben saldo sulle gambe… «Sa quando è riesploso? Proprio con Bassolino.
Lui aveva ricevuto in dono, un prezioso dono da gestire, l’immagine di napoletanità come genialità, come creatività, ma ci ha restituito una Napoli dominata, zavorrata dal pregiudizio degli altri. E anche di se stessa». Insomma, come al solito, ha ragione Totò.
Diceva, il principe De Curtis, che, essendo napoletano, aveva l’impressione che anche i gatti lo guardassero in cagnesco.
Ma segnali di ottimismo, nella Napoli del post-monnezza, se ne trovano? «Be’, come si dice… toccato il fondo non si può che risalire. Certo, sia agli occhi del resto dell’Italia, sia a quelli del resto del mondo, il fondo lo abbiamo toccato.
Quando mai avremo a disposizione tutti quegli aiuti europei mal gestiti? Tuttavia qualcosa si sta muovendo. Si torna a parlare di alternanza e di dibattito politico. La camorra è finalmente vista come un’emergenza nazionale. E il centrodestra, se si dà una mossa, ha in mano molte carte da giocare».
Secondo il professor Giuseppe Galasso, grande storico del Mezzogiorno anche in chiave antropologica (ricordiamo il suo L’altra Europa, riproposto quest’anno da Guida), «i legami di Napoli sono più forti con il resto del Paese che con il Mezzogiorno. Il sogno della grande capitale ha fatto del male alla città. Almeno quanto il luogo comune dell’eccessivo assistenzialismo venuto dal Nord: Napoli ha avuto tanto, ma meno di quanto si creda. I punti di eccellenza ci sono eccome. Ma vengono frenati. Ci vuole una bonifica sociale, anche a livello di cattiva amministrazione.
Noi dobbiamo batterci il petto 33 volte, ma chi sta fuori Napoli non presuma di non avere negli occhi, se non una trave, almeno una pagliuzza».
Uneba Napoli - Appello a Berlusconi per i ragazzi di Napoli
Il presidente di Uneba Napoli Lucio Pirillo si rivolge a Governo, Regione e Provincia perchè spingano sull’amministrazione comunale di Napoli, che mette a rischio le attività a beneficio di bambini ed anziani.
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“Intervenite sulla grave situazione economico-finanziaria in cui versano gli istituti che operano nel campo dell’assistenza ai circa 3000 minori ed ai 700 anziani di Napoli!”.
E’ il nuovo pressante appello che il presidente dell’Uneba Napoli Lucio Pirillo rivolge al sindaco Rosa Russo Jervolino, al presidente della Provincia di Napoli Luigi Cesaro, al presidente della Regione Campania Antonio Bassolino e finanche il presidente del consiglio Silvio Berlusconi.
L’appello è stato ripreso anche dall’Ansa.
Si tratta di un ulteriore tentativo da parte di Pirillo di attirare attenzione sulla preoccupante situazione di Napoli, più volte raccontata da www.uneba.org Il Comune di Napoli, infatti, viene meno ai suoi impegni verso i centri per minori accumulando enormi ritardi nei pagamenti a dispetto delle promesse.
“E’ una questione – afferma Pirillo - che riguarda tutta la città e va oltre gli schieramenti partitici. E’ una questione di responsabilità dell’intera classe politica napoletana nei confronti di minori in difficoltà e di anziani con gravi disagi economici. Ci stiamo avviando verso una strada senza ritorno”.
Il presidente Uneba evidenzia ancora una volta il rischio che si fa ogni giorno più forte: “Si potrebbe arrivare alla sospensione di tutte le attività socio-assistenziale con grave danno per i ceti più deboli. Infatti, il comportamento dell’amministrazione comunale, con il suo mancato pagamento di quanto dovuto agli istituti, rende assai difficile la conduzione delle varie attività”.
“Le rette di mantenimento non vengono corrisposte dal lontano settembre 2007 mentre nel periodo successivo sono state elargite poche somme, quasi a titolo benefico. Tutto ciò ha messo in crisi l’intero settore tanto che gli istituti, religiosi e laici, non riescono a comprare neppure l’indispensabile per il quotidiano. Le banche, con le quali gli Istituti sono fortemente indebitate stanno chiedono il rientro dalle esposizioni. Il personale dipendente è, da mesi, senza stipendio mettendo in sofferenza anche le loro famiglie”.
“L’amministrazione comunale viene meno anche ai verbali d’accordo che sottoscrive regolarmente d’intesa con l’Uneba. Il danno non è fatto solo agli istituti. Il danno è fatto anche ai minori ed agli anziani. Anche perché ora c’è davvero il rischio che gli istituti, sospendano le attività per i debiti con le banche, delusi e sfiduciati verso il Comune. E rinuncino, a malincuore, alla loro attività con i minori ed anziani:una attività ritenuta indispensabile per una politica che vuole definirsi capace di affrontare i drammatici problemi che affliggono la nostra città”.
FONTE UNEBA NAZIONALE
http://www.uneba.org/uneba-napoli-appello-a-berlusconi-per-i-ragazzi-di-napoli
WELFARE: NAPOLI - ISTITUTI SENZA SOLDI, APPELLO A ISTITUZIONI
ANSA - NAPOLI
Un appello al presidente del Consiglio dei Ministri, Silvio Berlusconi, al presidente della Regione Campania, Antonio Bassolino, al sindaco di Napoli, Rosa Russo Iervolino, al presidente della Provincia di Napli, Luigi Cesaro e a tutte le forze politiche viene rivolto dal presidente dell’Unione degli enti di Assistenza,religiosi e laici di Napoli, Lucio Pirillo perché “intervengano sulla grave situazione economico-finanziaria in cui versano gli Istituti che operano nel campo dell’assistenza ai circa 3000 minori ed ai 700 anziani di Napoli”.
“E’ una questione, infatti, che riguarda tutta la città che va oltre gli schieramenti partitici - afferma il presidente Pirillo - E’ una questione di responsabilità dell’intera classe politica napoletana nei confronti di minori in difficoltà e di anziani con gravi disagi economici. Ci stiamo avviando verso una strada senza ritorno.
Che potrebbe portare alla sospensione di tutte le attività socio-assistenziali con grave danno per i ceti più deboli”.
A giudizio di Pirillo “il comportamento dell’Amministrazione Comunale rende assai difficile la conduzione delle varie attività per il mancato pagamento di quanto dovuto agli Istituti.
Le rette di mantenimento non vengono corrisposte dal lontano settembre 2007 mentre nel periodo successivo sono state elargite poche somme quasi a “titolo benefico”. Tutto ciò ha messo in crisi l’intero settore tanto che gli Istituti, religiosi e laici, non riescono a comprare “l’indispensabile” per il quotidiano.
Le banche, con le quali gli Istituti sono fortemente indebitate stanno chiedono il rientro dalle esposizioni. Il personale dipendente è, da mesi, senza stipendio mettendo in sofferenza anche le loro famiglie. L’Amministrazione Comunale viene meno anche ai verbali d’accordo che sottoscrive regolarmente d’intesa con l’Uneba.
Il danno non e fatto solo agli istituti. Il danno è fatto anche ai minori ed agli anziani”. “Anche perché ora c’é davvero il rischio che gli istituti, sospendino le attività per i debiti con le banche, delusi e sfiduciati verso il Comune.
E rinuncino, a malincuore, alla loro attività con i minori ed anziani:una attività ritenuta indispensabile per una politica che vuole definirsi capace di affrontare i drammatici problemi che affliggono la nostra città“, conclude Pirillo.
fonte
ANSA
Il delitto il castigo e la pietà ….
di MICHELE BRAMBILLA
rassegna stampa
fonte la stampa
La brigatista Diana Blefari Melazzi si è impiccata in cella come il Michè della ballata di Fabrizio De André e il primo sentimento nel cuore di ognuno di noi è quello di una misericordia che non deve essere negata a nessuno, neanche agli assassini. Guai se finisse come in quella ballata: «Domani alle tre / nella fossa comune cadrà / senza il prete e la messa / perché di un suicida / non hanno pietà». L’Italia è però un Paese che in tema di delitto e castigo reagisce spesso più con l’istintività che con la ragione. Ci si straccia le vesti ogni volta che un giudice emette sentenze ritenute troppo morbide, e ogni volta che un reo o anche un semplice indiziato lascia il carcere.
Nel caso dei terroristi, poi, si pensa che alla maggior parte di loro - tra leggi sui pentiti, sconti, permessi di lavoro eccetera - sia andata fin troppo bene. Ci indigniamo, e non senza buone ragioni, quando un ex brigatista rosso o nero va a tenere conferenze.
Eppure ieri la morte di Diana Blefari Melazzi è stata fatta passare come un mezzo assassinio di Stato. Ascoltando le prime reazioni, sembrava che questa donna in carcere ci fosse finita per sbaglio, e ci fosse rimasta per l’ostinazione vendicativa di uno Stato che non ha voluto tener conto delle sue condizioni di salute psichica; condizioni, come si dice in questi casi, «incompatibili con la detenzione». Si rischia così, ancora una volta, di perdere di vista la realtà dei fatti e il senso dell’equilibrio.
Ora, è vero che un suicidio in carcere è sempre - oltre che una tragedia personale - una sconfitta per lo Stato. Il ministro Alfano ha annunciato un’inchiesta, che ci auguriamo non preveda sconti per nessuno.
Ma per mettere alcuni punti fermi, e per distinguere la pietà dalla giustizia, bisognerà ricordare che Diana Blefari Melazzi al momento dell’arresto si era dichiarata «militante rivoluzionaria del partito comunista combattente»; che nel covo che aveva preso in affitto furono trovati, oltre all’archivio delle nuove Br, cento chili di esplosivo; che sul suo computer c’era un file con la rivendicazione dell’«esecuzione»; che se lei era in cella, Marco Biagi - l’uomo che aveva pedinato per giorni, compresa la sera dell’omicidio - è sotto terra da sette anni; che nessun pentimento è stato espresso. Infine, bisognerà ricordare pure che questa donna è stata ritenuta colpevole in tutti i gradi di giudizio.
Era «incapace di stare in giudizio», come dice ora chi parla di suicidio annunciato? Può darsi. Ma una perizia psichiatrica c’è stata, e lo ha escluso. Sono cose sgradevoli da ricordare, ma così come Diana Blefari Melazzi ha diritto alla pietà, i giudici che ora passano per carnefici hanno diritto alla verità.
Tutto questo premesso, non c’è dubbio che - lo ripetiamo - un suicidio in carcere sia una sconfitta per lo Stato, e per lo Stato italiano si tratta della sessantesima sconfitta dall’inizio dell’anno. Ma sì: sessanta sono stati i suicidi in cella dal primo gennaio. Altre 87 persone sono morte in carcere, ed è ancora più inquietante sapere che, fra questi 87, il numero di «morti per cause da accertare» supera quello di «morti per malattia». La contabilità diventa ancor più macabra se prendiamo in esame gli ultimi dieci anni: 1500 morti in carcere, un terzo per suicidio.
Ieri si faceva notare che a Rebibbia - dove s’è uccisa la Blefari - invece che 164 agenti ce ne sono in servizio 110. Molte guardie vengono assegnate a compiti amministrativi, sicuramente più agevoli e probabilmente meno utili. Non c’è dubbio che ci sia un difetto nei controlli. Ma c’è da chiedersi se sia solo un problema di guardie insufficienti.
Ne dubitiamo. Forse è anche e soprattutto un problema di sovrappopolazione carceraria; sovrappopolazione che rende più difficili i controlli e più disumane le condizioni di vita dei detenuti. Il ministro Maroni ha più volte fatto notare che senza gli immigrati clandestini le carceri non esploderebbero. E’ un’osservazione da tenere in grande considerazione.
Ma l’uomo della strada si chiede anche perché in Italia ci sia così tanta gente in carcere per piccoli reati quando poi vediamo bancarottieri e - appunto - terroristi lasciare le sbarre con tanto anticipo. Difficile indicare una soluzione. Più facile per ora la diagnosi, che è quella di un Paese che vive una specie di schizofrenia: da una parte una diffusa impunità, dall’altra una punizione che diventa ingiustizia.
Fra i tanti problemi urgenti da mettere subito nell’agenda politica c’è anche questo.
La camorra alla conquista dei partiti in Campania
La camorra alla conquista dei partiti in Campania
di Roberto Saviano
rassegna stampa
fonte
repubblica
Quando un’organizzazione può decidere del destino di un partito controllandone le tessere, quando può pesare sulla presidenza di una Regione, quando può infiltrarsi con assoluta dimestichezza e altrettanta noncuranza in opposizione e maggioranza, quando può decidere le sorti di quasi sei milioni di cittadini, non ci troviamo di fronte a un’emergenza, a un’anomalia, a un “caso Campania”. Ma al cospetto di una presa di potere già avvenuta della quale ora riusciamo semplicemente a mettere insieme alcuni segni e sintomi palesi.
Sembra persino riduttivo il ricorso alla tradizionale metafora del cancro: utile, forse, soprattutto per mostrare il meccanismo parassitario con cui avviene l’occupazione dello Stato democratico da parte di un sistema affaristico-politico-mafioso. Ora che le organizzazioni criminali decidono gli equilibri politici, è la politica ad essere chiamata a dare una risposta immediata e netta. Nicola Cosentino, attuale sottosegretario all’Economia e coordinatore del Pdl in Campania, fino a qualche giorno fa era l’indiscusso candidato alla presidenza della Regione. Nicola Cosentino, detto “o’mericano”, è stato indicato da cinque pentiti come uomo organico agli interessi dei Casalesi: tra le deposizioni figurano quelle di Carmine Schiavone, cugino di Sandokan, nonché di Dario de Simone, altro ex capo ma soprattutto uno dei pentiti che si sono rivelati fra i più affidabili al processo Spartacus.
Per ora non ci sono cause pendenti sulla sua testa e le dichiarazioni dei collaboratori di giustizia sono al vaglio della magistratura. Nicola Cosentino si difende affermando di non poter essere accusato della sua nascita a Casal di Principe, né dei legami stretti anni fa da alcuni suoi familiari con esponenti del clan. Però da parte sua sono sempre mancate inequivocabili prese di distanza e questo, in un territorio come quello casertano, sarebbe già stato sufficiente per tenere sotto stretta sorveglianza la sua carriera politica. Invece l’ascesa di Cosentino non ha trovato ostacoli: da coordinatore provinciale a coordinatore regionale, da candidato alla Provincia di Caserta a sottosegretario dell’attuale governo. E solo ora che aspira alla carica di Governatore, finalmente qualcuno si sveglia e si chiede: chi è Nicola Cosentino? Perché solo ora si accorgono che non è idoneo come presidente di regione?
Perché si è permesso che l’unico sviluppo di questi territori fosse costruire mastodontici centri commerciali (tra cui il Centro Campania, uno dei più grandi al mondo) che sistematicamente andavano ad ingrassare gli affari dei clan. Come ha dichiarato il capo dell’antimafia di Napoli Cafiero de Raho “è stato accertato che sarebbe stato imposto non solo il pagamento di tangenti per 450 mila euro (per ogni lavoro ndr) ma anche l’affidamento di subappalti in favore di ditte segnalate da Pasquale Zagaria”. Lo stesso è accaduto con Ikea, che come denunciato al Senato nel 2004 è sorto su un terreno già confiscato al capocamorra Magliulo Vincenzo, e viene dallo Stato ceduto ad una azienda legata ai clan. Nulla può muoversi se il cemento dei clan non benedice ogni lavoro.
Secondo Gaetano Vassallo, il pentito dei rifiuti facente parte della fazione Bidognetti, Cosentino insieme a Luigi Cesaro, altro parlamentare Pdl assai potente, in zona controllava per il clan il consorzio Eco4, ossia la parte “semilegale” del business dell’immondizia che ha già chiesto il tributo di sangue di una vittima eccellente: Michele Orsi, uno dei fratelli che gestivano il consorzio, viene freddato a giugno dell’anno scorso in centro a Casal di Principe, poco prima che fosse chiamato a testimoniare a un processo. Il consorzio operava in tutto il basso casertano sino all’area di Mondragone dove sarebbe invece - sempre secondo il pentito Gaetano Vassallo - Cosimo Chianese, il fedelissimo di Mario Landolfi, ex uomo di An, a curare gli interessi del clan La Torre. Interessi che riguardano da un lato ciò che fa girare il danaro: tangenti e subappalti, nonché la prassi di sversare rifiuti tossici in discariche destinate a rifiuti urbani, finendo per rivestire di un osceno manto legale l’avvelenamento sistematico campano incominciato a partire dagli anni Novanta. Dall’altro lato assunzioni che garantiscono voti ossia stabilizzano il consenso e il potere politico.
Districare i piani è quasi impossibile, così come è impossibile trovare le differenze tra economia legale e economia criminale, distinguere il profilo di un costruttore legato ai clan ed un costruttore indipendente e pulito. Ed è impossibile distinguere fra destra e sinistra perché per i clan la sola differenza è quella che passa tra uomini avvicinabili, ovvero uomini “loro”, e i pochi, troppo pochi e sempre troppo deboli esponenti politici che non lo sono. E, infine, è pura illusione pensare che possa esistere una gestione clientelare “vecchia maniera”, ossia fondata certo su favori elargiti su larga scala, ma aliena dalla contaminazione con la camorra. Per quanto Clemente Mastella possa dichiarare: “Io non ho nessuna attinenza con i clan e vivo in una provincia dove questo fenomeno non c’è, o almeno non c’era fino a poco fa”, sta di fatto che un filone dell’inchiesta sullo scandalo che ha investito lui, la sua famiglia e il suo partito sia ora al vaglio dell’Antimafia. I pubblici ministeri starebbero indagando sul business connesso alla tutela ambientale; si ipotizza il coinvolgimento oltre che degli stessi Casalesi anche del clan Belforte di Marcianise. Il tramite di queste operazioni sarebbe Nicola Ferraro, anch’egli nativo di Casal di Principe, consigliere regionale dell’Udeur, nonché segretario del partito in Campania. Di Ferraro, imprenditore nel settore dei rifiuti, va ricordato che alla sua azienda fu negato il certificato antimafia; ciò non gli ha impedito di fare carriera in politica. E questo è un fatto.
Di nuovo, non è l’aspetto folkloristico, la Porsche Cayenne comprata dal figlio di Mastella Pellegrino da un concessionario marcianisano attualmente detenuto al 416-bis, a dover attirare l’attenzione. L’aspetto più importante è vedere cos’è stato il sistema Mastella - un sistema che per trent’anni ha rappresentato la continuità della politica feudale meridionale - e che cosa è divenuto. Oggi, persino se le indagini giudiziarie dovessero dare esiti diversi, non si può fingere di non vedere che Ceppaloni confina con Casal di Principe o vi si sovrappone. E il nome di Casale qui non ha valenza solo simbolica, ma è richiamo preciso alla più potente, meglio organizzata e meglio diversificata organizzazione criminale della regione.
Per la camorra - abbiamo detto - destra e sinistra non esistono. Il Pd dovrebbe chiedersi, ad esempio, come è possibile che in un solo pomeriggio a Napoli aderiscano in seimila. Chi sono tutti quei nuovi iscritti, chi li ha raccolti, chi li ha mandati a fare incetta di tessere? Da chi è formata la base di un partito che a Napoli e provincia conta circa 60.000 tesserati, 10.000 in provincia di Caserta, 12.000 in quella di Salerno, 6.000 ciascuno nelle restanti province di Avellino e Benevento? Chiedersi se è normale che il solo casertano abbia più iscritti dell’intera Lombardia, se non sia curioso che in alcuni comuni alle recenti elezioni provinciali, i voti effettivamente espressi in favore del partito erano inferiori al numero delle tessere. Perché la dirigenza del Pd non è intervenuta subito su questo scandalo?
Che razza di militanti sono quelli che non vanno a votare, o meglio: vanno a votare solo laddove il loro voto serve? E quel che serve, probabilmente, è il voto alle primarie, soprattutto nella prima ipotesi che fosse accessibile solo ai membri tesserati. Questo è il sospetto sempre più forte, mentre altri fatti sono certezza. Come la morte di Gino Tommasino, consigliere comunale Pd di Castellammare di Stabia, ucciso nel febbraio dell’anno scorso da un commando di cui faceva parte anche un suo compagno di partito. O la presenza al matrimonio della nipote del ex boss Carmine Alfieri del sindaco di Pompei Claudio d’Alessio.
L’unica cosa da fare è azzerare tutto. Azzerare le dirigenze, interrompere i processi di selezione in corso, sia per la candidatura alla Regione che per le primarie del Pd, all’occorrenza invalidare i risultati. Non è più pensabile lasciare la politica in mano a chi la svende a interessi criminali o feudali. Non basta più affidare il risanamento di questa situazione all’azione del potere giudiziario. Non basterebbe neppure in un Paese in cui la magistratura non fosse al centro di polemiche e i tempi della giustizia non fossero lunghi come nel nostro. È la politica, solo la politica che deve assumersi la responsabilità dei danni che ha creato. Azzerare e non ricandidare più tutti quei politici divenuti potenti non sulle idee, non su carisma, non sui progetti ma sulle clientele, sul talento di riuscire a spartire posti e quindi ricevere voti.
Mentre la politica si disinteressava della mafia, la mafia si è interessata alla politica cooptandola sistematicamente. Ieri a Casapesenna, il paese di Michele Zagaria, è morto un uomo, un politico, il cui nome non è mai uscito dalle cronache locali. Si chiamava Antonio Cangiano, nel 1988 era vicesindaco e si rifiutò di far vincere un appalto a un’impresa legata al clan. Per questo gli tesero un agguato. Lo colpirono alla schiena, da dietro, in quattro, in piazza: non per ucciderlo ma solo per immobilizzarlo, paralizzarlo. Tonino Cangiano ha vissuto ventun’anni su una sedia a rotelle, ma non si è mai piegato. Non si è nemmeno perso d’animo quando tre anni fa coloro che riteneva responsabili di quel supplizio sono stati assolti per insufficienza di prove.
Se la politica, persino la peggiore, non vuole rassegnarsi ad essere mero simulacro, semplice stampella di un’altra gestione del potere, è ora che corra drasticamente ai ripari. Per mero istinto di sopravvivenza, ancora prima che per “questione morale”. Non è impossibile. O testimonia l’immagine emblematica e reale di Tonino che negli anni aveva dovuto subire numerosi e dolorosi interventi terminati con l’amputazione delle gambe, un corpo dimezzato, ma il cui pensiero, la cui parola, la cui voglia di lottare continuava a prendersi ogni libertà di movimento. Un uomo senza gambe che cammina dritto e libero, questo è oggi il contrario di ciò che rappresentano il Sud e la Campania. È ciò da cui si dovrebbe finalmente ricominciare.
Pdl, Regione mai così vicina
La Chiesa, il Pd e il silenzio dei cattolici democratici di Andrea Romano
RASSEGNA STAMPA -fonte- • da Il Sole 24 Ore del 4 settembre 2009, pag. 16
Nella partita nuova e sempre più disordinata che si è aperta tra berlusconismo e Chiesa italiana è da registrare con qualche sorpresa il silenzio dei cosiddetti “cattolici democratici”, ovvero di coloro che hanno predicato e praticato la mediazione politica tra la propria fede e l’esigenza di governare una nazione moderna e plurale. Naturalmente non sono mancate in Parlamento e nei partiti di opposizione le prese di posizione, anche molto nette, di singoli esponenti cattolici contro le particolarità comportamentali del Presidente del Consiglio e più recentemente contro gli attacchi venuti dalla stampa filo-berlusconiana alla persona di Dino Boffo. Ma quella che è clamorosamente mancata è la sensazione di una presenza di quella vasta e autorevole area del centro-sinistra che nell’ultimo decennio ha tentato di aggiornare alle condizioni della Seconda repubblica la lezione che fu già di De Gasperi e Moro: testimoniare la propria fede senza rinchiudersi nella rappresentanza confessionale di una sola parte d’Italia, cercare ad ogni passo di coniugare in senso universalistico la vocazione cristiana con lo spirito della democrazia e della giustizia sociale. La ragioni di quest’assenza non possono essere cercate esclusivamente nei patimenti congressuali del Partito democratico, per quanto l’incombere della vittoria di Bersani nel segno del revival socialdemocratico stia evidentemente concorrendo a togliere energia ed entusiasmo a quell’area C’è forse qualcosa di più nell’incapacità di inserirsi con forza nel primo vero conflitto che si registra da molti anni tra Berlusconi e una componente non secondaria delle gerarchie ecclesiastiche, con le sue inevitabili ricadute su almeno una parte dell’elettorato cattolico di centro-destra. Qualcosa che ha a che fare con la più recente parabola storica del cattolicesimo democratico, che dopo la stagione di Romano Prodi non sembra più in grado di trovare ragioni abbastanza forti per giustificare la propria identità organizzata e quella funzione di ago della bilancia svolta per molti anni sulla scena politica non berlusconiana. Nella stagione di Prodi, specialmente per gli ansi del primo Ulivo, l’aspirazione universalistica dei cattolici democratici aveva trovato un nuovo modo di stare al mondo dopo la fine della Dc. Era stata figlia diretta di quell’aspirazione la scelta di Prodi come candidato alla presidenza del consiglio, ma soprattutto fu emanazione di una tradizione alta di amministrazione della cosa pubblica lo schieramento di una classe dirigente che in quegli anni ha saputo distinguersi nel governo del paese e nell’assunzione di scelte coraggiose, necessarie e spesso impopolari. Comunque la si pensi e comunque si sia votato nel 1996, è difficile negare che negli ultimi anni dello scorso decennio il contributo venuto dal cattolicesimo democratico alla concreta pratica di governo del paese sia stato di alta qualità. I problemi sono venuti dopo. Quando la stagione del primo Ulivo si è consumata come tutti ricordiamo e quando dalle soluzioni di governo il protagonismo dei cattolici democratici si è spostato a quel conflitto sui valori che nel frattempo andava colonizzando gran parte dei nostro discorso pubblico. Qui il centro-destra ha avuto buon gioco nell’assorbire le ragioni del tradizionalismo cattolico, nella debolezza di una cultura politica che se pure si era detta fugacemente liberale non è mai riuscita a darsi forza e coerenza sufficienti a costruire posizioni autonome sui nuovi temi della vita e della persona. La controprova è nelle più recenti prese di posizione di Gianfranco Fini, che tenta di risalire la china di questa passività collegandosi a quanto negli stessi anni è stato realizzato dai settori più innovativi del centro-destra europeo. Sull’altro fronte, nel centrosinistra, la chiamata al conflitto sui valori ha frantumato la tradizione del cattolicesimo democratico in una piccola nube di appartenenze tutte minoritarie: dall’esperimento teodem con cui si è cercato di costruire un nuovo protagonismo politico dei cattolici non berlusconiani ma lontani dagli stilemi del cattolicesimo di sinistra, alla nostalgia prodiana degli ulivisti più irriducibili fino al più recente tentativo di Ignazio Marino di ibridare la fede personale con soluzioni bioetiche di segno radicalmente laico. Tentativi tutti minoritari sia perché incapaci di contrastare la compattezza del neo-tradizionalismo del centro-destra, sia perché inseriti in un contenitore di partito dove ogni singola identità rivendica una propria casella dentro un comune accordo di non belligeranza. Ogni componente conserva il proprio potere di interdizione e tutte concorrono a definire in modo pattizio una leadership che, anche domani, non sarà che l’ennesima espressione di un passato che non accenna a passare. Per i cattolici democratici lontani dal governo e spesso anche da una cultura di governo gli effetti di questo accordo nel contesto dell’Italia post-secolare hanno significato la dispersione in molte piccole tribù. Con il doppio risultato negativo di rendere del tutto pacifico il ritorno egemonico di quella tradizione post-comunista che, seppur indebolita, non ha certamente subìto lo stesso destino di frammentazione. E soprattutto di perdere la voce nei momenti in cui, come oggi, sarebbe utile e opportuno anche agli occhi di chi non è credente saper mostrare forza e attrattiva nei confronti di un elettorato cattolico quanto meno spaesato di fronte a quanto sta accadendo. |