Il vero significato del 25 aprile
Salve amici cari, secondo voi ha davvero ancora senso, nell’Italia del bipolarismo e dei partiti post-ideologici, celebrare come festa nazionale il 25 aprile?
Ha senso, ogni anno, in prossimità di questa ricorrenza, assistere a dibattiti che la caricano di significati politici atti più ad alimentare le divisioni che non a porre l’accento sui valori, ormai interiorizzati nella maggioranza del paese, di libertà e democrazia? Non si tratta di domande retoriche o provocatorie. Le feste nazionali sono ricorrenze che dovrebbero sottolineare, attraverso la solennità dei rituali, i momenti fondanti e unificanti della storia del paese. Sono occasioni per ricordare il senso dell’appartenenza dei cittadini a una sola comunità nazionale. E poco importa che il presidente della Repubblica ricordi che “non è una festa di una parte sola”. Fiato sprecato…
In Italia c’è qualcuno che sabato, 64° anniversario della Liberazione, dovrà tenersi a distanza dalla piazza. Il primo della lista è ovviamente il premier Silvio Berlusconi. Il segretario Pd Dario Franceschini lo ha invitato a dire «parole chiare e inequivocabili sui valori della Resistenza, dell’antifascismo e della Costituzione». Un passo necessario visto che, come spiega Antonio Di Pietro, «a lui non gliene frega proprio niente. Fa e dice tutto questo solo perché è in campagna elettorale». Ancora più netto il giudizio di Paolo Cento (oggi militante sotto le insegne di Sinistra e Libertà): «Sarebbe del tutto inaccettabile la sua presenza durante la celebrazione di questa data storica». Mentre David Sassoli, fresco di candidatura alle europee con il Pd, ha già imparato la lezione: «Berlusconi bisogna sempre invitarlo a fare qualcosa, invece a noi viene spontaneo ricordare che il 25 aprile è un giorno importante». Eccolo qua il problema. Noi e loro. Altro che festa di tutti. Sembra di essere nel 1945. Da una parte i vincitori, dall’altra i vinti che, ovviamente, rappresentano ancora un pericolo per la democrazia. Soprattutto ora che sono al governo. Ma andiamo a qualche anno fa: il 25 aprile di tre anni fa quando l’allora ministro dell’Istruzione Letizia Moratti, candidato sindaco nel capoluogo lombardo, partecipò al corteo con il padre, ex deportato a Dachau, in carrozzella. Fu accolta con fischi e urla. E non le andò meglio l’anno successivo quando, in qualità di primo cittadino, salì sul palco di piazza Duomo. Forse anche per questo, quest’anno, non ha ancora fatto sapere se parteciperà o meno al corteo. Così come non ha ancora sciolto la riserva il governatore lombardo Roberto Formigoni, che però ricorda il 25 aprile del 1995 quando, «a pochi giorni dall’insediamento come presidente della Regione Lombardia, fui oggetto di attacchi e insulti». Gli stessi che nel 2002 ricevette, a Bologna, il sindaco Giorgio Guazzaloca. «Fischi sacrosanti» commentarono i Verdi Paolo Cento e Mauro Bulgarelli. Napolitano avrà anche a ragione a dire che «non è una festa di una parte sola», ma a sinistra la pensano un po’ diversamente.
La festività civile del 25 aprile fu introdotta in Italia con una precisa valenza politica e simbolica. La propose ad Alcide De Gasperi nel 1946 il comunista Giorgio Amendola, allora sottosegretario alla presidenza del Consiglio. Lo scopo era, al di là delle dichiarazioni ufficiali, al tempo stesso quello di esaltare il ruolo del Cln del Nord nella liberazione del paese e quello di accreditarne i componenti, a cominciare dai comunisti, come legittimi costruttori della nuova Italia e come depositari dei valori di libertà e democrazia.
Era la consacrazione del mito di una “unità della Resistenza” egemonizzata dal partito comunista: una visione che, di fatto, relegava in secondo piano il generoso contributo alla lotta contro il fascismo da parte di settori del Paese che non si riconoscevano nella bandiera rossa e nel progetto di Palmiro Togliatti di «democrazia progressiva». E questo, a ben vedere, era e rimane il vizio d’origine della festività. Dopo l’esclusione di comunisti e socialisti dal governo, le celebrazioni della ricorrenza assunsero un carattere paradossale: le manifestazioni ufficiali promosse nello spirito della riaffermazione dell’identità nazionale trovarono un contraltare in quelle inneggianti al «tradimento» della Resistenza e dei suoi valori.
Le piazze dei 25 aprile si riempivano di bandiere rosse più che di tricolori. E ciò proprio mentre il trascorrere del tempo rendeva più saldi, nel sentire comune degli italiani e nella profondità delle loro coscienze, al di là dell’appartenenza all’uno o all’altro partito, i sentimenti di adesione ai principi liberali e democratici. Adesso molta acqua è passata sotto i ponti e il sistema politico è profondamente cambiato. Le forze che vollero la ricorrenza del 25 aprile come simbolo dell’«unità antifascista» e quelle che la contestavano in nome di una improponibile fedeltà a un passato morto e sepolto sono scomparse o ridotte a elementi residuali.
Le nuove generazioni di italiani sono estranee (grazie al cielo!) alle memorie contrapposte. La loro adesione alla liberaldemocrazia è priva di remore. Berlusconi tenga presente questo fatto nel valutare la proposta di Franceschini di prendere parte alle manifestazioni celebrative. In ogni caso, l’auspicio è che quella del 25 aprile sia percepita non più come una festa dell’«unità antifascista» ma come una celebrazione dei valori di libertà e democrazia. Se così non fosse - e si ritorna alla domanda iniziale - ha ancora un senso il 25 aprile?