L’idea falsa delle due Napoli
-rassegna Stampa -
di Luciano Brancaccio da il Corriere del Mezzogiorno
C’è una grave contraddizione tra i dati forniti dagli istituti di ricerca e le rappresentazioni che si affollano nel dibattito cittadino, da parte di intellettuali e politici. Non esistono due Napoli, una superiore e l’altra inferiore, bisogna dirlo con forza, una volta per tutte. Questa mistificazione che ormai ci perseguita da secoli, non solo è falsa, ma produce atteggiamenti fatalistici e dunque autoassolutorii. Sarebbe forse il caso di invitare tutti coloro che vi insistono a un maggior senso di realismo e, sia detto con tutto il rispetto, a una maggiore onestà intellettuale.
L’interpretazione delle due Napoli è semplicemente falsa, qualsiasi scala si utilizzi per collocare i napoletani nella parte «bassa» o «alta» della città. Sul piano della stratificazione sociale classica, basata su reddito e prestigio, Napoli è una città di ceti medi.
Come molte altre grandi città occidentali con un passato industriale e un presente fatto per buona parte di pubblico impiego (circa il 40% dei redditi è riconducibile alla spesa statale), presenta una struttura a rombo, rigonfia nelle classi centrali e ristretta ai due estremi.
È vero che negli ultimi venti anni c’è stata una certa polarizzazione della ricchezza e una crescita delle aree di povertà, ma niente di paragonabile alle città davvero «duali», come le metropoli sudamericane e asiatiche. Se si vuole combattere l’emarginazione sociale bisogna partire dal problema qual è, dipingere l’inferno serve a poco.
Il discorso di una ristretta cerchia colta e cosmopolita e di una massa plebea regge ancor meno se prendiamo in considerazione le risorse culturali.
La quota di laureati a Napoli è di oltre 4 punti superiore a quella italiana, mentre il numero di napoletani senza titolo di studio è di circa due punti percentuali inferiore alla media nazionale. Qui c’è un importante vantaggio competitivo sul quale può fondarsi una nuova politica di sviluppo. Napoli è ricca di nuove generazioni che si immettono sul mercato del lavoro con alti livelli di formazione, amministratori e politici dovrebbero lavorare per far fruttare questo capitale umano.
Per farlo, bastano politiche di buon senso, che combattano i recinti di privilegio e le aree di collusione. Niente di più distante, quindi, da un partito governativo del Sud, che intende riprodurre l’antico piagnisteo dell’eccezionalità della società napoletana e meridionale, con l’obiettivo «politico » di tenere salde le mani sui cordoni della spesa pubblica.
Abbiamo ormai esperienza di 60 anni di finanziamenti speciali che non hanno ridotto il divario con il resto d’Italia e invece hanno prodotto l’effetto collaterale di irrigidire la gerarchia sociale, fino a ottenere tassi di mobilità sociale (questi sì) da paese del terzo mondo.
Napoli è città problematica. I suoi problemi sono anche peculiari e unici, ma non ha nulla di patologico, né di fatalmente irreversibile. La sua eccezionalità non sta nel corpo sociale ma in un’impressionante continuità del discorso politico. Per cominciare a metter mano ai problemi di oggi c’è bisogno di amministratori che non si spaccino per la parte «buona» della città contro quella «cattiva», né che utilizzino retoriche stantie per restare pervicacemente in sella.