Il delitto il castigo e la pietà ….
di MICHELE BRAMBILLA
rassegna stampa
fonte la stampa
La brigatista Diana Blefari Melazzi si è impiccata in cella come il Michè della ballata di Fabrizio De André e il primo sentimento nel cuore di ognuno di noi è quello di una misericordia che non deve essere negata a nessuno, neanche agli assassini. Guai se finisse come in quella ballata: «Domani alle tre / nella fossa comune cadrà / senza il prete e la messa / perché di un suicida / non hanno pietà». L’Italia è però un Paese che in tema di delitto e castigo reagisce spesso più con l’istintività che con la ragione. Ci si straccia le vesti ogni volta che un giudice emette sentenze ritenute troppo morbide, e ogni volta che un reo o anche un semplice indiziato lascia il carcere.
Nel caso dei terroristi, poi, si pensa che alla maggior parte di loro - tra leggi sui pentiti, sconti, permessi di lavoro eccetera - sia andata fin troppo bene. Ci indigniamo, e non senza buone ragioni, quando un ex brigatista rosso o nero va a tenere conferenze.
Eppure ieri la morte di Diana Blefari Melazzi è stata fatta passare come un mezzo assassinio di Stato. Ascoltando le prime reazioni, sembrava che questa donna in carcere ci fosse finita per sbaglio, e ci fosse rimasta per l’ostinazione vendicativa di uno Stato che non ha voluto tener conto delle sue condizioni di salute psichica; condizioni, come si dice in questi casi, «incompatibili con la detenzione». Si rischia così, ancora una volta, di perdere di vista la realtà dei fatti e il senso dell’equilibrio.
Ora, è vero che un suicidio in carcere è sempre - oltre che una tragedia personale - una sconfitta per lo Stato. Il ministro Alfano ha annunciato un’inchiesta, che ci auguriamo non preveda sconti per nessuno.
Ma per mettere alcuni punti fermi, e per distinguere la pietà dalla giustizia, bisognerà ricordare che Diana Blefari Melazzi al momento dell’arresto si era dichiarata «militante rivoluzionaria del partito comunista combattente»; che nel covo che aveva preso in affitto furono trovati, oltre all’archivio delle nuove Br, cento chili di esplosivo; che sul suo computer c’era un file con la rivendicazione dell’«esecuzione»; che se lei era in cella, Marco Biagi - l’uomo che aveva pedinato per giorni, compresa la sera dell’omicidio - è sotto terra da sette anni; che nessun pentimento è stato espresso. Infine, bisognerà ricordare pure che questa donna è stata ritenuta colpevole in tutti i gradi di giudizio.
Era «incapace di stare in giudizio», come dice ora chi parla di suicidio annunciato? Può darsi. Ma una perizia psichiatrica c’è stata, e lo ha escluso. Sono cose sgradevoli da ricordare, ma così come Diana Blefari Melazzi ha diritto alla pietà, i giudici che ora passano per carnefici hanno diritto alla verità.
Tutto questo premesso, non c’è dubbio che - lo ripetiamo - un suicidio in carcere sia una sconfitta per lo Stato, e per lo Stato italiano si tratta della sessantesima sconfitta dall’inizio dell’anno. Ma sì: sessanta sono stati i suicidi in cella dal primo gennaio. Altre 87 persone sono morte in carcere, ed è ancora più inquietante sapere che, fra questi 87, il numero di «morti per cause da accertare» supera quello di «morti per malattia». La contabilità diventa ancor più macabra se prendiamo in esame gli ultimi dieci anni: 1500 morti in carcere, un terzo per suicidio.
Ieri si faceva notare che a Rebibbia - dove s’è uccisa la Blefari - invece che 164 agenti ce ne sono in servizio 110. Molte guardie vengono assegnate a compiti amministrativi, sicuramente più agevoli e probabilmente meno utili. Non c’è dubbio che ci sia un difetto nei controlli. Ma c’è da chiedersi se sia solo un problema di guardie insufficienti.
Ne dubitiamo. Forse è anche e soprattutto un problema di sovrappopolazione carceraria; sovrappopolazione che rende più difficili i controlli e più disumane le condizioni di vita dei detenuti. Il ministro Maroni ha più volte fatto notare che senza gli immigrati clandestini le carceri non esploderebbero. E’ un’osservazione da tenere in grande considerazione.
Ma l’uomo della strada si chiede anche perché in Italia ci sia così tanta gente in carcere per piccoli reati quando poi vediamo bancarottieri e - appunto - terroristi lasciare le sbarre con tanto anticipo. Difficile indicare una soluzione. Più facile per ora la diagnosi, che è quella di un Paese che vive una specie di schizofrenia: da una parte una diffusa impunità, dall’altra una punizione che diventa ingiustizia.
Fra i tanti problemi urgenti da mettere subito nell’agenda politica c’è anche questo.