C’è chi deve essere protetto…..
Spezzoni del discorso in parlamento del 92, processo del 93, intervista ad Hammamet del 97
Il futuro frugale che ci aspetta
rassegna stampa
di MARIO DEAGLIO
I sistemi economici non muoiono per malattie economiche, le Borse non possono continuare a cadere per sempre: dopo un certo periodo, la caduta produttiva si arresta e qualche forma di crescita riprende a seguito della pressione delle esigenze vitali della popolazione. Dopo le guerre e le più dure crisi finanziarie, i peggiori crolli di produzione e Borse sono stati nell’ordine del 40-50 per cento. Nella crisi attuale le autorità monetarie e di governo hanno fatto tesoro delle esperienze degli Anni Trenta e sono riuscite, «pompando» immani risorse nel sistema finanziario, ad arrestare, nella maggior parte dei Paesi avanzati, la contrazione del prodotto interno al 5-6 per cento e quella della produzione industriale al 15-25 per cento. Gli indici di Borsa, precipitati per un brevissimo periodo circa un anno fa, sono oggi di circa il 20-25 per cento sotto i massimi storici e continuano timidamente a risalire.
Tutto ciò può sembrare un discorso consolatorio di fine anno sulla bravura di chi governa le principali economie mondiali, e invece proprio non lo è. Non c’è, infatti, molta relazione tra la bravura necessaria per tenere in vita il malato e quella per farlo guarire. Un medico bravo nel primo caso non è necessariamente bravo nel secondo e qualche segno di scarsa abilità nel gestire un rilancio credibile a livello mondiale sta cominciando ad affiorare.
I più importanti di questi segni sono la scarsa attenzione, anche politica, al peso che potrà avere la disoccupazione e, per contro, l’eccessiva attenzione statistica al momento in cui la ripresa comincia a manifestarsi e la trascuratezza per le garanzie effettive che uno-due trimestri di ripresa molto pallida possano consolidarsi. Si è largamente sperato che, come altre volte in passato, una volta ripartita, la produzione rimbalzasse rapidamente all’insù come un elastico, secondo l’immagine usata da Friedman. Queste speranze per ora sono andate deluse.
Almeno tre alternative oggi trascurate (apparentemente pessimistiche ma purtroppo realistiche) per l’evoluzione del prossimo anno vanno esaminate con serietà: la prima è che l’economia globale possa continuare a vegetare invece di tornare a crescere, portandosi dietro un numero crescente di affamati, oggi già più di un miliardo; la seconda è che le sue prospettive di crescita possano risultare stabilmente modificate in peggio dopo un ingannevole guizzo di ripresa; la terza è che la massa di risorse finanziarie messe in circolazione possa trasformarsi in altrettanto «veleno» e stimolare una grave inflazione planetaria. E ce n’è abbastanza per essere molto cauti. Per questo, in un finale d’anno ancora segnato dall’incertezza nonostante i progressi compiuti, oltre alla cautela è necessario un allargamento della visuale rappresentata dagli indici di Borsa di breve periodo. L’economista oggi non può chiudersi nel suo ufficio a macinare su un computer numeri - spesso di dubbia validità - né tanto meno lo può fare l’analista finanziario. Occorre invece ampliare il campo di osservazione estendendolo ai segnali extra-economici che possono interferire con l’economia.
Nel cercare di fare previsioni, non possiamo chiudere gli occhi di fronte allo spettacolo di un’amplissima area, che va dall’Afghanistan e dal Pakistan fino alla Somalia, dove la globalizzazione è sulla difensiva e non sta certo accumulando vittorie né economiche né militari; il che proietta un’ombra sulla stabilità dei vitali rifornimenti di petrolio provenienti da quell’area e sul prezzo delle altre materie prime. E nascondiamo la testa nella sabbia se dimentichiamo che, in questo inverno duro e anomalo, i prezzi di molte materie prime agricole hanno già ripreso a salire fortemente: tè, cacao e zucchero fanno registrare record storici e tale tendenza potrebbe diventare generale sotto la spinta della crescente domanda dei Paesi emergenti e delle difficoltà, legate anche all’instabilità climatica, di espandere in maniera sensibile l’offerta.
Un altro potente segnale di instabilità deriva dall’attentato a un aereo americano nel giorno di Natale. Per quanto fisicamente fallito, ha raggiunto l’obiettivo di far dirottare immediatamente ulteriori risorse dalla produzione alla sicurezza. Rispetto a una settimana fa, oggi viaggiare in aereo costa di più in termini di tempo (in America per ottemperare alle nuove misure l’aspirante passeggero deve arrivare all’aeroporto quattro ore prima della partenza) e sicuramente tra poche settimane l’aumento nei costi di prevenzione degli attentati si ripercuoterà sul prezzo dei biglietti. Si noti bene che accettiamo non solo di pagare di più ma anche di essere meno liberi: chi vuol volare in America deve acconsentire a farsi fiutare dai cani, essere disposto a togliersi le scarpe e quant’altro e i cittadini americani hanno già accettato che la loro corrispondenza elettronica possa essere legalmente letta dai servizi di sicurezza.
Tutto ciò deve indurre a un atteggiamento più sobrio e più responsabile al posto di una fiducia quasi caricaturale in una ripresa indolore e con pochi problemi che ci riporti al precedente Regno di Bengodi. E’ degno di nota che alcuni operatori finanziari hanno prefigurato un «futuro frugale» (Merrill Lynch) e una «nuova normalità» (la Pimco, società di gestione di fondi), ossia un assetto sociale che sostanzialmente non può più permettersi le sicurezze e le opulenze di qualche anno fa. The Economist e altri periodici di grande influenza discutono in termini non certo trionfalistici su ciò che può avvenire dopo la tempesta. Tutto ciò trova un contrappunto in numerose, autorevoli voci non economiche che parlano di «sobrietà» necessaria nei Paesi ricchi e non solo in campo economico; in questo contesto occorre segnalare, tra le altre, le parole del Presidente della Repubblica e quelle del Pontefice. Insomma, non se ne può proprio più dell’attenzione spasmodica a listini azionari che rappresentano sempre meno la realtà dell’economia e a dati statistici destinati a essere corretti, in genere in peggio, nel giro di poche settimane. Si può però ragionevolmente sperare che il Nuovo Anno porti a nuove cautele e più ampi orizzonti, a nuovi progetti di crescita mondiale da attuarsi in tempi medio-lunghi, meno squilibrati di quelli di un passato recente.
Una sinistra ancora in parte subalterna all’uso della violenza
rassegna stampa
da Il Riformista del 16 dicembre 2009
di Ritanna Armeni
Si può essere di sinistra e avere un moto di pietà, di fronte al volto insanguinato di un avversario? Si può essere fieramente e radicalmente avversi a un progetto politico e rimanere sgomenti se chi lo incarna è fatto oggetto di violenza? E, infine, si può continuare a criticare con tutta l’energia possibile una linea politica, una strategia e una proposta e poi essere solidale con chi la persegue se questi si trova in un momento di fragilità?
Sono quasi sicura che chiunque a sinistra, di fronte a queste domande risponderebbe affermativamente. Sono anche preoccupata per il fatto che di fronte a un fatto concreto, il ferimento di Berlusconi molti, non pochi, hanno mostrato un atteggiamento diverso. Di che tipo? Le reazioni a caldo sono state varie e a 48 ore dall’ incidente di piazza Duomo mi pare di poterne riportare almeno quattro. La prima la posso definire di pensosa preoccupazione. Non per il ferito, ma per la situazione politica che il ferimento di Berlusconi determinava: la possibilità di un ricompattamento della maggioranza, un indebolimento dell’opposizione, un rafforzamento delle posizioni del premier. Tutte preoccupazioni naturali, ovviamente, e sulle quali ci si interrogherà nei prossimi giorni, ma sorprendentemente prive di ogni sgomento e di ogni emozione a qualche minuto dall’aggressione. La seconda possiamo definirla della relativizzazione o minimizzazione e se ne è fatta infelicemente portavoce una donna solitamente intelligente e appassionata come Rosy Bindi. Il premier - si è detto - non faccia la vittima, sono cose che capitano a un uomo pubblico che fa un bagno di folla. E poi - sempre nella linea della minimizzazione - si è trattato di un pazzo, un isolato che con lo scontro politico e il clima del Paese non c’entra nulla. Anche in questo caso, curiosamente, gli effetti pesanti, non simbolici, dell’aggressione: una ferita al volto, due denti spezzati e un naso fratturato, scompaiono.
Viene un certo imbarazzo a definire il terzo atteggiamento che potremmo definire “complottista”. In poche parole si avanza il sospetto che qualcuno abbia organizzato il tutto per creare solidarietà attorno a Berlusconi, per ricompattare il suo popolo e la sua maggioranza. C’è poi una quarta reazione che non si è ancora pienamente espressa, ma che nei prossimi giorni sicuramente si manifesterà sui giornali e nei talk show e che possiamo definire di “vittimismo”. Essa è sintetizzabile così: ecco qui, ora noi dell’opposizione non potremo più parlare e criticare con forza, con durezza, perché il premier ha passato tre notti in un ospedale. Ancora una volta la libertà di critica e di espressione viene messa a tacere. Non so francamente quanto questi atteggiamenti e queste reazioni corrispondano a un reale sentire e quanto invece siano, mostrati ed esibiti per esprimere un’irriducibilità al nemico. Ma è poco importante. È importante, invece che essi siano stati assunti, che queste siano le frasi usate nelle conversazioni, nei commenti, nelle battute di una parte. E che, contemporaneamente molti a sinistra abbiano negato ogni accenno allo sgomento, alla solidarietà, alla pietà o, semplicemente, all’emozione.
Perché in parti non marginali del popolo e degli intellettuali della sinistra sono presenti gli atteggiamenti che ho appena descritto? So bene che quasi sicuramente, queste forme di reazione si potrebbero constatare in una situazione simile anche a destra ma questo non è un buon motivo per non interrogarsi. Buona parte degli osservatori politici ritiene che essi siano propri di una sinistra che fa riferimento a un giustizialismo senza se e senza ma, a una politica fondata sulla demonizzazione dell’avversario e sulla personalizzazione che peraltro riconosce dall’altra parte, a destra, protagonisti altrettanto radicalizzati. I giornali di destra poi vanno oltre e puntano il dito, fanno i nomi dei responsabili: Di Pietro, Travaglio, Santoro, Il Fatto, Repubblica.
Non mi sento di essere d’accordo. Questa matrice culturale c’è sicuramente, ma le origini sono più lontane, le radici più profonde, la storia più antica. La radice forte è la subalternità nei confronti della violenza. Di fronte a un atto violento perpetrato nei confronti del nemico non è ancora maturato in questi decenni - che pure di violenza ne hanno vista tanta - un atteggiamento di reale, completo, indiscusso ripudio. All’opposto la violenza nei confronti dell’avversario politico, trasformato in nemico (oggi violenza verbale soprattutto e per fortuna) è il metro con il quale si pensa di misurare la volontà e la capacità di opposizione. La subalternità nei confronti della violenza è dannosa quanto la violenza stessa. Negli anni 70 e 80 i violenti veri e propri erano pochi, ma erano molti, moltissimi coloro che mantenevano dentro e fuori i grandi partiti della sinistra un atteggiamento subalterno, di tolleranza, di comprensione. Essa era qualcosa di cui magari non si era capaci, ma alla quale non ci si opponeva chiaramente e radicalmente perché indicava tutto sommato una passione, una dedizione alla causa. Essa, ad esempio, e non l’intelligenza delle forme di lotta è stata ritenuta per decenni la prova della capacità e della volontà di opporsi all’avversario di classe. Le lotte di liberazione nazionale e la Resistenza erano ancora vicine.
Ancora oggi evidentemente per molti è così. Le reazioni e gli atteggiamenti nei confronti del premier ferito, l’assenza o addirittura la vergogna di fronte ai sentimenti di pietà e di solidarietà umana non hanno altra spiegazione. Di recente lo storico Giovanni De Luna nel libro “Il corpo del nemico ucciso” spiega come l’atteggiamento nei confronti del corpo del nemico è anche un documento straordinario per conoscere l’identità del carnefice. Mi è tornato in mente questo concetto proprio in questi giorni. E si parva licet componere magnis (De Luna parla dei grandi conflitti mondiali e in questo caso parliamo di un episodio incomparabilmente più limitato) mi sono chiesta: che sinistra è quella che per esistere pensa di dover eliminare la pietà nei confronti del corpo ferito di un suo avversario?
E ho tirato un sospiro di sollievo quando ho visto Pierluigi Bersani che si recava al San Raffaele in visita a Silvio Berlusconi.
I dubbi del palazzo “dovevamo fermarci”
rassegna stampa
da Corriere della Sera del 14 dicembre 2009
di Francesco Verderami
Processo Bassolino: motori di lavatrici negli impianti di cdr. Il rischio prescrizione avanza.
UDIENZA DEL 9 DICEMBRE 2009
Testo del video intervento
Prosegue la sfilata dei testimoni davanti alla quinta sezione del Tribunale di Napoli, presieduta da Maria Adele Scaramella, che giudica 28 imputati accusati di truffa, falso, frode in pubbliche forniture, abuso d’ufficio e interruzione di pubblico servizio in merito alla gestione dell’emergenza rifiuti nella Regione Campania.
Tra gli imputati anche il Governatore del Partito Democratico, Antonio Bassolino, che tra il 2000 ed il 2004, nominato dall’esecutivo, ha guidato la struttura del commissariato per l’emergenza rifiuti. Una struttura burocratica che costava diversi milioni di euro all’anno solo per gli stipendi di commissario e sub commissari e che secondo le accuse veniva gestita perseguendo un disegno criminale volto a non superare l’emergenza.
Secondo i pubblici ministeri il commissario di Governo non poteva non essere a conoscenza della condotta dei gestori degli impianti, le imprese consorziate IMPREGILO-FIBE-FISIA, che sovraccaricava gli impianti, disincentivava la raccolta differenziata provocando uno svernamento in discarica di oltre il 49% dei rifiuti anziché del 15% stabilito dal piano per l’emergenza.
Oggi è toccato rispondere alle domande, del PM Paolo Sirleo e delle difese, a Carmine Urciuoli, impiegato di DEVIZIA Transfer spa, che si occupava del trasporto dei rifiuti dagli impianti di produzione a quelli di smaltimento per conto di FIBE e delle altre società che gestivano gli impianti per la produzione di CDR.
Poi Fabio Nunziante, capoturno dell’impianto di Casalduni, che come gli altri colleghi alle precedenti udienze, ha confermato che spesso, su ordine scritto del commissario di governo, gli impianti caricavano anche il doppio del target di rifiuti stabilito. Anche a Casalduni si avviò la costruzione di una struttura supplementare per additivare il cdr con rifiuti speciali.
Cosa è cambiato oggi con la nuova gestione- domanda dell’avvocato Ilaria Criscuolo - ? “Nulla. Hanno cambiato il nome della FOS, frazione organica stabilizzata, in FUT, frazione umida tritovagliata” - ha risposto Nunziante.
A concludere la testimonianza di Maurizio Avallone, un passato in Fintecna, che negli anni oggetto del processo dirigeva il SEAM (servizio di emergenza ambientale) dell’ARPA Campania occupandosi di verificare la condizione degli impianti. Esisteva un’apposita convenzione con il commissario di governo, ma non gli vennero mai forniti gli strumenti per compiere analisi autonome dovendosi limitare ad esaminare i dati analitici forniti dai gestori degli impianti.
Ciò non gli impedì, racconta, di accertare “che gli impianti erano sovraccarichi il che impediva le manutenzioni ordinarie” e durante le riunioni periodiche poteva solo limitarsi a segnalare le anomalie a chi di competenza. Osservazioni comunicate anche ai subcommissari Acampora e Vanoli. Senza risultato.
“Ho visto con i miei occhi, nelle fosse dei rifiuti, perfino motori di lavatrici o frigoriferi interi”. E nel corso di alcune riunioni del comitato per l’ordine e la sicurezza pubblica, quando l’emergenza non era del tutto esplosa sui media l’ordine fu preciso “teniamo bassi i toni”.
Il processo sfida i tempi della prescrizione che si avvicina inesorabile e dovrebbe quindi ricevere una spinta maggiore. Mancano oltre 300 testimoni e si procede ad un ritmo forse troppo basso.
Prima di natale è prevista ancora un’udienza. E da gennaio a giugno le udienze proseguiranno quasi tutti i mercoledì. Ma a Roma comincia il processo Cirio, molte difese sono impegnate a difendere i presunti bancarottieri ed il calendario di uno dei due processi dovrà risentirne. E un’idea su quale sarà è facile farsela.
Postato da Antonio Di Pietro in Processo Bassolino
Carloni: a Castellammare i Ds non vollero la svolta
rassegna stampa
venerdì, dicembre 4, 2009
di Simona Brandolini da il Corriere del Mezzogiorno -
In un angolo della buvette di Palazzo Madama, la senatrice democratica Annamaria Carloni tiene stretto un piccolo taccuino su cui si è appuntata pezzi di riflessione su Castellammare. Per dieci mesi, in una stagione ormai lontana, un lustro in politica è un’era glaciale, è stata assessora al Bilancio. La giunta era quella di Ersilia Salvato. «Giuramento contro la camorra o manifesto di intenti mi sembra comunque, quello scelto dal Pd stabiese, un atto simbolico necessario. In un contesto così complicato ha un senso, certo un senso estremo, ma è giusto drammatizzare».
Oggi nella sezione di corso Vittorio Emanuele è ripartito il tesseramento del Partito democratico, in una città dove l’ombra della camorra incombe su politica e amministrazione. Un caso, chiariamolo, non certo isolato in Campania. Ma a Castellammare è esploso in un pomeriggio di febbraio, quando è stato ucciso il consigliere comunale del Pd Luigi Tommasino. E il suo killer, si è scoperto poi, era iscritto nella stessa sezione di partito. E proprio lì si è recata ieri Libera Tommasino, la vedova del consigliere: «Questa è una pagliacciata» ha detto al commissario Persico. Tra le lacrime: «Dove sono gli altri dirigenti che non hanno il coraggio di guardarmi negli occhi?». La signora Tommasino non si è iscritta.
Ma il Pd ha deciso che per ripulire le tremila tessere si passerà l’aspirapolvere del codice etico, del giuramento, degli elenchi pubblici. Questa volta nulla rimarrà sotto il tappeto, annunciano i dirigenti. Per la Carloni questa presa di coscienza collettiva assomiglia molto alle scelte del biennio stabiese della giunta Salvato.
Ci spiega perché?
«La scelta del giuramento compiuta dal commissario Persico si lega bene a un’esperienza altrettanto forte, appassionata e sfortunata come la sindacatura della Salvato. Sono passati cinque anni da quando Ersilia è caduta sotto i colpi del fuoco amico, ma nulla di buono è avvenuto nella città. Si sono aggravati i problemi e c’è una maggiore presenza della camorra. E ora il sindaco Vozza, a cui va tutta la mia solidarietà, ha un problema in più: cancellare il bollino della camorra da Castellammare».
Cosa aveva di diverso quella giunta di centrosinistra dalla precedente guidata da Polito e dall’attuale?
«Con l’elezione di Ersilia si era unita una parte della città fino ad allora fuori dai giochi, ci fu una rinascita tutta imperniata sul tema della legalità non come slogan, ma come rinnovamento dei comportamenti. Ma non fu capita né sostenuta quella ostinazione per un rinnovamento vero, che andava a rompere consuetudini della gestione».
A cosa di riferisce?
«Alle relazioni consolidate, ad un sistema, che la Salvato caparbiamente decise di modificare. Per esempio cambiò tutti i vertici e molte erano donne: il capo dei vigili, il direttore generale. Perché la critica ai partiti era di non aver aggredito il tema della legalità».
Chi non vi sostenne?
«I Ds, locali e provinciali. Ma anche Fassino tacque su quella vicenda. Ersilia Salvato fu dileggiata e attaccata. Si ridusse tutto a una questione di cattivo carattere, invece, il suo, era un carattere forte, necessario».
In che modo quella giunta fu avversata dai Ds?
«Cadde per un venire meno dei suoi consiglieri. Non la sostenevano, fu abbandonata e messa in minoranza. Il tema su cui è stata attaccata era il rinnovamento della politica e delle persone. Paradossale ».
Lei parla di sistema consolidato, cosa intende?
«Un modo opaco di gestione della cosa pubblica e un funzionamento opaco dei partiti. Mettere persone che non garantiscono gli equilibri di potere è una rottura del sistema. Non fare quello che il partito ti chiede è un taglio netto mal sopportato».
Questo vuol dire che l’amministrazione precedente fosse inquinata?
«No, c’erano persone perbene, ma non garantivano la trasparenza. Ci sono vari episodi che ricordo. C’era una delibera che tornava puntualmente in giunta: riguardava il rinnovo di un appalto risalente al 1923 per il cimitero. Questo vuol dire che c’erano gangli della burocrazia opachi. Un sistema incrostato».
Dopo due anni la Salvato gettò la spugna. A distanza che riflessione fa in base a quell’esperienza?
«Bisogna veramente cambiare metodi e persone, ci vuole radicalità morale. Senza idee e confronto si crea una zona in cui proliferano le forze criminali. Quando alla politica si sostituisce lotta per il potere interno si abbassano tutte le barriere. Per fortuna ora se ne parla nel Partito democratico e ringrazio Persico per questo».
A Castellammare come in gran parte della Campania il centrosinistra governa da più di quindici anni. Lei crede, come sta emergendo, che ci sia stata da parte del centrosinistra una sottovalutazione della camorra? Per anni è stata quasi cancellata dal dibattito, ora torna con prepotenza.
«Penso che negli anni della grande partecipazione democratica, nella stagione che va dal ’93 al ’96, ci sia stata anche un’azione giudiziaria molto forte contro la camorra. I capi erano stati presi. Il problema è che quella stagione è stata troppo breve. C’è stato un allentamento nella lotta alla camorra. Tante speranze, ma per esempio pochi risultati sul piano dell’occupazione. I fondi europei sono stati fondamentali per dotare di una rete di infrastrutture il nostro territorio, ma non hanno cambiato la struttura della società. E il fenomeno camorristico si è rimesso in gioco. Dobbiamo imparare che ogni atto politico deve essere misurato sul terreno della legalità. Ogni forma di condono è un problema serio. Dobbiamo ripensare il sistema degli appalti, ma anche il reclutamento elettorale. Siamo tanto affezionati alle preferenze, invece ci vogliono collegi più piccoli dove non servono migliaia di voti per essere eletti ».
Castellammare come esempio per la politica campana. Da dove ripartire?
«Bisogna rimettere in campo quei progetti di cambiamento. Anche quando falliscono hanno molto da insegnare. Abbiamo il dovere di riconsegnare queste zone ad una democrazia vera. Nel Pd in Campania deve essere possibile fare questo. Viviamo in tempi difficili, torbidi, bisogna puntare sulle forze più nuove, raccontare queste storie, fare un bilancio delle nostre esperienze. Un bilancio con onestà. Perciò mi sento di essere solidale con Vozza, ma non posso non ricordare che Salvatore è stato il grande avversario di Ersilia Salvato. Ersilia andava sostenuta con lealtà e fino in fondo, il fatto che non sia avvenuto, è stato il vero danno per quella città».
WELFARE: NAPOLI - ISTITUTI SENZA SOLDI, APPELLO A ISTITUZIONI
ANSA - NAPOLI
Un appello al presidente del Consiglio dei Ministri, Silvio Berlusconi, al presidente della Regione Campania, Antonio Bassolino, al sindaco di Napoli, Rosa Russo Iervolino, al presidente della Provincia di Napli, Luigi Cesaro e a tutte le forze politiche viene rivolto dal presidente dell’Unione degli enti di Assistenza,religiosi e laici di Napoli, Lucio Pirillo perché “intervengano sulla grave situazione economico-finanziaria in cui versano gli Istituti che operano nel campo dell’assistenza ai circa 3000 minori ed ai 700 anziani di Napoli”.
“E’ una questione, infatti, che riguarda tutta la città che va oltre gli schieramenti partitici - afferma il presidente Pirillo - E’ una questione di responsabilità dell’intera classe politica napoletana nei confronti di minori in difficoltà e di anziani con gravi disagi economici. Ci stiamo avviando verso una strada senza ritorno.
Che potrebbe portare alla sospensione di tutte le attività socio-assistenziali con grave danno per i ceti più deboli”.
A giudizio di Pirillo “il comportamento dell’Amministrazione Comunale rende assai difficile la conduzione delle varie attività per il mancato pagamento di quanto dovuto agli Istituti.
Le rette di mantenimento non vengono corrisposte dal lontano settembre 2007 mentre nel periodo successivo sono state elargite poche somme quasi a “titolo benefico”. Tutto ciò ha messo in crisi l’intero settore tanto che gli Istituti, religiosi e laici, non riescono a comprare “l’indispensabile” per il quotidiano.
Le banche, con le quali gli Istituti sono fortemente indebitate stanno chiedono il rientro dalle esposizioni. Il personale dipendente è, da mesi, senza stipendio mettendo in sofferenza anche le loro famiglie. L’Amministrazione Comunale viene meno anche ai verbali d’accordo che sottoscrive regolarmente d’intesa con l’Uneba.
Il danno non e fatto solo agli istituti. Il danno è fatto anche ai minori ed agli anziani”. “Anche perché ora c’é davvero il rischio che gli istituti, sospendino le attività per i debiti con le banche, delusi e sfiduciati verso il Comune.
E rinuncino, a malincuore, alla loro attività con i minori ed anziani:una attività ritenuta indispensabile per una politica che vuole definirsi capace di affrontare i drammatici problemi che affliggono la nostra città“, conclude Pirillo.
fonte
ANSA
Vicerè, cacicchi e musica
rassegna stampa
di Mimmo Carratelli (da: La Repubblica del 2 novembre)
Ci scrive Libero Bovio dopo la confidenza fattagli dal Governatore che con Re Mita si vince alle prossime regionali: “Ogge sto tanto allero ca quasi quasi me mettesse a chiagnere pe’ sta felicità. Ma è overo o nun è overo ca so’ turnate ‘nsieme?”. Commosso, ha scritto anche al Governatore: “Tu ca nun cagne e chiagnere mme faje”. Tempo addietro, aveva scritto a Prodi: “No, caro Romano no, così non va, diamo un addio all’Ulivo se nell’Ulivo è l’infelicità”.
Il signor Bovio ha confidato alla madre: “Mia cara madre, sta pe’ trasì Bersane. Vuttamme ‘e mmane. Aggio fatte ‘e primarie ‘e sto partito, ch’era ‘nu chiuovo, e mo co’i viecchi o fanno nuovo nuovo. Brinneso alla salute d’’o governatore ca s’è rispusato cu’ l’amiche-nemiche risaputo. Vino vinello, se pe’ Ntonio e Ciriaco è tutto ‘nu trastullo, i’ veco l’allianza e mi fo bello co’ l’Allirchino e il Purginello”. Bovio ci informa d’avere preparato un personale saluto al nuovo Pd campano: ”Felicissima sera a tutte sti signure rilanciate e a chesta cummitiva accussì allera d’uommene cacicchi e democristiane pittate.
Musica, musicante! Fatevi mordo onoro, vattimmo ‘a destra, Cosentino, Viespoli e Caldoro. ‘Mmiez’a tante uommene rampante abballa n’Amendola rinnovatore, ma chi cagna ‘a via vecchia co’ a nova, sape ‘e viceré che lassa e nun sape ‘e cacicche ca trova. Nun se cagna a scena. O riceno a Gallipoli, o rice Massimo D’Alema”.
Bovio invia un saluto anche al sindaco. Titolo “Rusinella”. Testo: “T’aggio vutato bene a te, tu m’hai rivoltato a me, e tra duie anne nun’nce virimmo cchiù. Duje anne, ce pienze duje anne. Dicevi di voler bene a Napoli, ma nun ci hai mai pensato, parcheggi nun hai fatto, ‘e buche l’hai lasciate. Aggio fatto nu voto a Madonna d’’a neve, ca te passa ‘sta freve dei poteri speciali. Palomma si’, ma ti mancano le ali”.
(intervista a Bassolino appena nominato commissario della federazione del Pds, non ancora candidato a Sindaco di Napoli )
La Rosa Bianca Sophie Scholl
Saviano: perché Pecorella infanga don Peppe Diana?
di ROBERTO SAVIANO-
Rassegna Stampa-
fonte la Repubblica.it
MI è capitato nella vita di fare pochissimi giuramenti a me stesso. Uno di questi, che non riuscirei a tradire se non vergognandomi profondamente, è difendere la memoria di chi nella mia terra è morto per combattere i clan. Ho giurato a me stesso sulla tomba di Don Peppe Diana il giorno in cui alcuni cronisti locali, alcuni politici e diversa parte di quella che qualcuno chiama opinione pubblica iniziarono un lento e subdolo tentativo di delegittimarlo.
Il venticello classico di certe parti d’Italia che calunnia ogni cosa che la smaschera; il tentativo di salvare se stessi dalla scottante domanda “perché io non ho mai detto o fatto niente?”. Ho letto in questi giorni sulla rivista Antimafia Duemila che due ragazzi, Dario Parazzoli e Alessandro Didoni, hanno chiesto durante una trasmissione Tv a Gaetano Pecorella come mai, quando era presidente della commissione giustizia, difendeva al contempo il boss casalese egemone in Spagna Nunzio De Falco, poi condannato come mandante dell’omicidio di Don Peppe Diana. Mi ha colpito e ferito sentire alcune dichiarazioni dell’Onorevole Pecorella in merito all’assassinio di Don Peppe Diana. In una intervista al giornalista Nello Trocchia per il sito Articolo 21, Pecorella dichiara: “Io dico che tra i moventi indicati, agli atti del processo, ce ne sono tra i più diversi. Nel processo qualcuno ha parlato di una vendetta per gelosia, altri hanno riferito che sarebbe stato ucciso perché si volevano deviare le indagini che erano in corso su un altro gruppo criminale. E altri hanno riferito anche il fatto che conservasse le armi del clan. Nessuno ha mai detto perché è avvenuto questo omicidio, visto che non c’erano precedenti per ricostruire i fatti. Se uno conosce le carte del processo, conosce che ci sono indicate da diverse fonti, diversi moventi”.
Proprio leggendo le carte si evince chiaramente che non è così, Onorevole Pecorella. Perché dice questo? È vero esattamente il contrario. Dalle carte del processo emerge invece che è tutto chiaro. E pure la sentenza della Corte di Cassazione del 4 marzo 2004 conferma che Don Peppe è stato ucciso per il suo impegno antimafia e per nessun’altra ragione. Che De Falco (di cui lei, Onorevole, ha assunto la difesa) ha ordinato l’uccisione di Don Peppe per dimostrare, uccidendo un nemico in tonaca, un nemico senza armi, che il suo gruppo era più forte e coraggioso di quello di Sandokan. E anche per deviare la pressione dello Stato proprio sul clan Schiavone. Quelli che lei definisce più volte “moventi indicati” furono, come dimostrano le sentenze, delle calunnie che alcuni camorristi portarono per lungo tempo in sede processuale per discolparsi. Calunnie nate dal fatto che persino loro cercavano di lavarsi le mani, in buona o cattiva fede, del sangue innocente che avevano versato. Ne avevano vergogna. Questo è quel che dicono gli iter conclusi della giustizia italiana. Ed è per questo che la risposta che l’Onorevole Pecorella ha dato appena qualche giorno fa alla domanda se Don Diana, a suo avviso, non fosse stato ucciso per il suo impegno contro i clan lascia basiti.
L’onorevole dice: “Io non ho avvisi. Io riporto quello che è emerso nel processo e nulla più. Ci sono diversi moventi, c’è anche quello, che all’inizio non era emerso, che faceva attività anticamorra. Per la verità nel processo non è venuto fuori molto chiaro neanche questo come movente. È inutile che costruiamo delle fantasie sulle ipotesi. Quella dell’impegno anticamorra è tra le ipotesi. Ma nel processo non è emerso in modo clamoroso, non è mai venuta fuori un’attività di trascinamento, di gente in piazza. Non è che c’erano state manifestazioni pubbliche, documenti. Qualcuno ha detto anche questa ragione. Come vede ci sono tanti moventi. Certamente è stato ucciso dalla camorra. Chi viene ucciso dalla camorra è una vittima della camorra. Ora se è un martire bisogna capirlo dal movente che non è stato chiarito”.
È stato chiarito. Lo Stato Italiano considera Don Peppe un martire della battaglia antimafia, migliaia di persone hanno sfilato in sua difesa. E i documenti che non ci sarebbero, ci sono eccome. Hanno non solo un nome, ma anche un titolo: “Per amore del mio popolo non tacerò″. È il documento stilato da Don Peppe insieme ad altri preti della forania di Casal di Principe in cui viene annunciata una battaglia pacifica, ma priva di compromessi alle logiche dei clan, al loro predominio, alla loro mentalità, alla loro cultura, alla loro falsa aderenza alla fede cristiana. Persino Papa Giovanni Paolo II, dopo la morte di Don Peppino Diana, pronunciò nell’Angelus: “Voglia il signore far sì che il sacrificio di questo suo ministro [...] produca frutti [..]di solidarietà e di pace”. Per Giovanni Paolo non ci furono dubbi, fu un martire. Per Lei, Onorevole Pecorella, invece ce ne sono. Perché, mi chiedo?
Le chiedo inoltre se considera legittimo rivestire il ruolo di Presidente della Commissione Giustizia del Parlamento Italiano e portare avanti la difesa del boss Nunzio De Falco? Lei immagino mi risponderà di sì, che anche il peggiore dei presunti criminali, ne ha il diritto. Ma questo principio di garanzia vale soltanto fino al verdetto finale. Tale verdetto di colpevolezza del suo mandante è stato emesso e confermato. Quindi la prego di non diffondere falsi dubbi sulla condanna a morte di Don Diana. Chi ha ucciso Don Peppe Diana è uno dei clan più potenti e feroci d’Italia che ha ancora due latitanti, Iovine e Zagaria, liberi di investire, costruire, e portare avanti i loro affari.
Oggi, Onorevole Pecorella, lei è presidente della commissione d’inchiesta sui rifiuti, e i Casalesi, come saprà, sono i maggiori affaristi nel traffico di rifiuti tossici e legali. Loro quindi dovrebbero essere i suoi maggiori nemici anche se in passato ha difeso in sedi processuali i loro capi. La prego di avere rispetto per Don Peppe e non dare nuovamente credito a calunnie che negli anni passati killer e mandanti hanno cercato di riversare su una loro vittima innocente. Questa mia domanda non è questione di destra o di sinistra. La legalità è la premessa del dibattito politico, o almeno dovrebbe esserlo. La premessa e non il risultato. Quando iniziai a trascrivere delle parole che Don Peppe aveva detto nel Casertano ho ricevuto lettere commosse da molti lettori conservatori, da cattolici di Comunione e Liberazione sino ai ragazzi della Comunità di Sant’Egidio, dalla comunità ebraica romana e da tante altre.
La battaglia alle organizzazioni criminali, l’ho vista fare da persone di ogni estrazione politica e sociale. Ho visto, quando ero bambino, manifestazioni nei paesi assediati dalla camorra in cui sfilavano insieme militanti missini, democristiani, comunisti e repubblicani. L’onestà non ha colore, spesso così come non ne ha l’illegalità. Per questo, il mio non è un appello che possa essere ascritto a una parte politica. Non permetterò mai a nessuno, e come dicevo me lo sono giurato, che la memoria di Don Peppe sia oltraggiata da accuse false, demolite dai Tribunali, che ebbero il solo scopo di screditare le sue parole, emettendo nel silenzio il ronzio malefico “quello che dice non è vero”. Questo non lo permetterò. Lei mi dirà che questa mia è una battaglia troppo personale. Io le ribadirei che, sì, lo è, è vero. Tutto ciò che riguarda la mia terra, ormai riguarda la mia vita stessa e quindi non può che essere personale. Difendere la memoria di Don Peppe Diana è una questione personale anche per un’altra ragione: è una questione di onore. Onore è una parola che spesso hanno abusivamente monopolizzato le cosche facendola diventare sinonimo del loro codice mafioso. Ma è il tempo di sottrarla alle loro grammatiche. Onore è il sentire violata la propria dignità umana dinanzi a un’ingiustizia grave, è il seguire dei comportamenti indipendentemente dai vantaggi e dagli svantaggi, è agire per difendere ciò che merita di essere difeso. E io l’onore, l’ho imparato qui a Sud. Per meglio spiegarmi, mi sovvengono le parole di Faulkner: “Tu non puoi capirlo dovresti esserci nato. In realtà essere del Sud è una cosa complessa. Comporta un’eredità di grandezza e di miseria, di conflitti interiori e di fatalità, è un privilegio e una maledizione. Vi è il senso aristocratico dell’onore e dell’orgoglio”. Mi piacerebbe poter mettere una parola definitiva su questo. Su quanto accaduto a don Peppe. Permettere di farlo riposare in pace. Riposare in pace significa non chiamarlo in causa laddove non può difendersi. A volte, come accade a molti miei compaesani per cui conserva il suo valore, mi viene di rivolgermi a lui. Don Peppe se è vero che tu hai visto la fine della guerra, perché, come dice Platone, solo i morti hanno visto la fine della guerra, sta a noi vivi il compito di continuare a combatterla. E non ci daremo pace.
(Published by arrangement with Roberto Santachiara Literary Agency)