Le formazioni sociali specifiche : un cantiere da aprire di Domenico Rosati
rassegna stampa - SettimanaNews - www.settimananews.it – del 28 febbraio 2016
Mentre sul campo dopo la battaglia delle unioni civili i superstiti sono impegnati nella conta dei
caduti e dei feriti è difficile ricondurre l’attenzione sulla sostanza dei problemi attorno ai quali s’è
svolto il conflitto parlamentare. Con l’ ambizione di rimettere in carreggiata un confronto politico
che dovrà continuare. La mia opinione è che, comunque, un tentativo vada fatto, guardando al
futuro, almeno attorno a due interrogativi.
Il primo riguarda la scelta, compiuta dal Senato, di identificare l’unione tra persone omosessuali
nella categoria delle “formazioni sociali” di cui all’articolo 2 della Costituzione. Se ne sono
misurate implicazioni e conseguenze? La genesi dell’opzione era in qualche modo obbligata per il
legislatore visto che l’indicazione veniva dalla Corte costituzionale: la tutela da riservare alle unioni
“omo” andava collocata non sotto l’art. 29 (che riguarda la famiglia «fondata sul matrimonio») ma
sotto l’art. 2 che riguarda, appunto, le “formazioni sociali”, ossia quegli ambiti in cui il singolo
«svolge la sua personalità». In tal modo – come si è chiarito – non si voleva estendere agli
omossessuali il matrimonio evocato dall’art. 29 come fondamento della famiglia, ma configurare
una modalità diversa di riconoscimento pubblico.
Questo non era evidente all’inizio poiché molte delle proposte patrocinavano il matrimonio unico
senza apprezzamento della differenza dei sessi tra i contraenti. Si può dire che l’intero confronto
parlamentare al riguardo ha rivelato un’ importante descalation in tale direzione fino a coniare la
formula di «formazione sociale specifica» per individuare l’unione civile tra persone dello stesso
sesso.
Un genere con molte specie
Specifica rispetto a che cosa? La risposta è suggerita dal fatto che nell’impianto costituzionale il
concetto di formazione sociale è un ombrello che copre molte realtà, un genus che ospita molte
species. In tal senso molte sono le «specifiche formazioni sociali» evocate in Costituzione. La
dottrina enumera in proposito le minoranze linguistiche, le confessioni religiose, le associazioni, la
scuola, i sindacati e i partiti politici, le cooperative, le comunità di lavoratori e utenti. Entra in tale
cerchia anche la famiglia «fondata sul matrimonio» come soggetto sociale con peculiari
caratteristiche; ed è proprio la sua inclusione nel novero delle formazioni sociali che permette di
individuarne le differenze rispetto ad altre modalità di realizzazione della personalità dei singoli. La
cognizione delle differenze è sempre importante. Rende l’idea l’aforisma attribuito ad Oscar Wilde:
«Tra uomo e donna c’è soltanto una piccola differenza. Viva la differenza».
Purtroppo nel mondo cattolico all’approdo con le «formazioni sociali» si è giunti, nel caso in
esame, tardi e male, cioè giocando di rimessa anziché di proposta. Ricordo dibattiti degli anni
novanta del secolo scorso in cui mi accadde di incorrere nei fulmini di alcuni tutori dell’integrità
della famiglia per aver sostenuto che due diverse formazioni sociali – la famiglia ex art. 29 e
un’altra formazione di differente composizione – non si sarebbero ostacolate a vicenda. E
sottolineavo che la dottrina delle formazioni sociali e dei corpi intermedi è un lascito in
Costituzione di La Pira, Dossetti, Moro e Fanfani. Era il tempo in cui, molto prima dell’episodio dei
Dico, si decretava il non expedit per la suggestione dell’allora ministro del lavoro, Ermanno
Gorrieri, di considerare la «famiglia anagrafica» (cioè la convivenza) ai fini delle prestazioni di
welfare.
Oltre il rimbrotto e la rappresaglia
Ora, per me, si è arrivati ad un buon traguardo, ma gli umori diffusi dei fronti in contesa vanno nella
direzione del rimbrotto e/o dell’allarme quando non della strategia della rappresaglia globale. È il
contrario di una serena valutazione dell’evoluzione intervenuta e della conclusione raggiunta. Che
consente, se si vuole, di stabilire un netto confine concettuale tra le due specie di «formazione
sociale»: da un lato il rapporto matrimoniale che dà luogo alla famiglia, dall’altro il rapporto non
matrimoniale che dà luogo all’unione civile. Fissata tale demarcazione, si può constatare senza
angoscia il fatto che tra le due entità vi possano essere alcune zone di sovrapposizione, per i diversi
istituti su cui si regge un rapporto di coppia, compresa la garanzia dei diritti dei minori coinvolti nel
rapporto, che va comunque disciplinata.
Voglio dire che, se si guarda realisticamente all’evoluzione legislativa a scala europea, l’Italia può
oggi presentarsi con un impianto forse ancora non compiutamente assestato nella sua
configurazione giuridica ma, tutto sommato, meno confuso e contraddittorio di altre esperienze. È
un contesto inedito rispetto al quale occorre scegliere come situarsi. Non solo in termini politici ma
anche e soprattutto in termini culturali.
Un desiderio d’ordine?
L’altro nodo che vorrei indicare riguarda non più l’impianto legislativo ma l’orientamento dei
costumi. Sono rimasto colpito dal fatto che a togliere l’obbligo della fedeltà reciproca dei partner
dal dispositivo approvato al Senato siano stati alcuni avversari della legge, mentre gli alfieri del
campo LGTB avrebbero voluto mantenerla anche come caratteristica dell’“unione civile”.
Appartengo a una generazione in cui l’omosessualità si è presentata ed è stata percepita da molti
come sinonimo di “libero amore”. «E si farà l’amore ognuno come gli va» cantava Lucio Dalla. Dal
canto suo il Catechismo della chiesa cattolica qualifica al n. 2357 gli atti omosessuali come
«intrinsecamente disordinati». Ora invece sembra manifestarsi in quel mondo un oggettivo bisogno
di normalità se non proprio d’ordine. O non ce ne eravamo accorti?
Chiedere l’accesso al matrimonio – ché questa era l’istanza principale – non significa introdursi in
un circuito non solo di diritti ma anche di doveri che prima era ritenuto estraneo? E che valutazione
dare di tale tendenza: esiste, è stabile, che consistenza ha? Spesso, mentre ci accapigliamo sui
paragrafi delle leggi, la società nutre in sé stessa modifiche dei costumi e delle aspettative che
destano sorpresa quando vengono alla luce.
Tenerlo presente è utile anche in relazione al tema che solo in parte il dibattito sulla legge per le
unioni civili ha messo in evidenza: quello di una società aperta che faticosamente cerca un
equilibrio tra l’indistinto del nuovo e il vissuto della sua esperienza storica. Che non sia anche un
tema pastorale?