Lo strano intrigo di San Gennaro
Nel cuore dei napoletani si scrive tutto attaccato, Sangennaro : nome proprio di persona, non un
santo impennacchiato ma uno di loro, impastato della loro carne; il vicino del basso accanto, che
pigli pure a maleparole ma con cui un piatto di pane e speranza lo spartisci sempre.
Sicché le lingue si sono imbrogliate, gli animi scaldati e perfino la paludata Bbc s’è interrogata
sull’intrigo politico-religioso di questi giorni a Napoli, «hands off San Gennaro», giù le mani dal
santo: a migliaia hanno sventolato fazzoletti bianchi di protesta davanti al Duomo. L’abate Vincenzo
De Gregorio, che serbando le chiavi della cassaforte del sangue è anche il custode ultimo della
tradizione, sospira sconfortato. Lo hanno appena fermato due o tre vecchiette semplici e ferventi, di
quelle che sotto l’altare del miracolo fanno le «parenti di Faccia ‘Ngialluta » (in ricordo della pia
Eusebia che raccolse nelle ampolle il sangue del martire appena decapitato).
E gli hanno chiesto:
«Monsigno’ , ma è vero che ci vogliono portare via San Gennaro? E dove ce lo portano?». «No, che
non è vero! Nessuno mette le mani su nulla! Tutto questo polverone copre il vero problema», sbotta
infine l’abate, uomo mite e organista così raffinato da essere assai apprezzato dai Papi.
Serve un passo indietro: la questione ha una premessa burocratica noiosa ma insidiosissima.
Angelino Alfano ha firmato (a fine gennaio) un decreto che modificherebbe (in senso «clericale»,
dicono) i criteri di nomina della Deputazione, istituto civico antico quanto l’amore per questo santo
così laico che, ha sostenuto Roberto Saviano, «protegge la città e i suoi abitanti non in quanto buoni
cristiani o fedeli meritevoli ma in quanto napoletani e basta».
Insomma, la Deputazione, composta da due rappresentanti per ciascuno
dei sei «sedili» cittadini (cinque dei nobili e uno del popolo) esiste dal 1601:
da quando, cioè, eseguendo un voto popolare di settant’anni addietro, eresse una
cappella in onore del patrono per lo scampato pericolo di un’eruzione del Vesuvio. Al giorno
d’oggi, è un unicum giuridico. Il Viminale — dopo anni di trattative, sollecitazioni e persino dopo
un abbozzo di nuovo statuto finito nel nulla — ha deciso di equiparare la Deputazione, che gestisce
in assoluta autonomia culto e tesoro del patrono, alle Fabbricerie: enti che — a Firenze, Milano,
Siena e Orvieto — s’occupano sotto la vigilanza dello Stato dei beni di luoghi sacri e sono composti
anche da rappresentanti ecclesiastici. Il punto sta proprio qui: rompendo un delicato e antico
equilibrio, la Curia nominerebbe un terzo dei rappresentanti della Deputazione, potendo esprimere il
gradimento per gli altri.
Quelli della Deputazione non l’hanno presa bene: annunciato un ricorso al Tar, hanno messo nel
mirino il cardinale Crescenzio Sepe, imputandogli «ingerenze» su Alfano in questa singolare
guerriglia tra cittadinanza e clero attorno al tesoro (uno dei più preziosi al mondo) e al culto del
santo.
Alfano ha ricordato che il suo decreto è forte d’un parere del Consiglio di Stato e che
comunque lo Statuto andava proprio aggiornato: «Risale al 1894». E tuttavia l’impressione che il
Viminale abbia un po’ forzato una situazione di stallo che magari durava da troppo tempo, rimane.
Certi malumori da queste parti sono fuochi di Piedigrotta. Riccardo principe di Carafa, attuale
vicepresidente della Deputazione (presidente per statuto è il sindaco di Napoli) discende
direttamente da quell’Alessandro Carafa che andò nel 1497 dai monaci di Montevergine a
riprendersi con le armi le reliquie del santo per riportarle in città. Alessandro Dumas racconta che
persino il generale napoleonico Championnet teneva così tanto al consenso dei napoletani ottenuto
tramite il miracolo del sangue da «sollecitarlo» con la minaccia di fucilare i poveri canonici: il fatto
che il sangue si sciolse davvero può essere, a seconda delle opinioni, prova di un imbroglio secolare
o della secolare misericordia di San Gennaro, chissà.
Contro il decreto e il presunto intrigo si sono levati in pochi giorni dai Cinque Stelle a de Magistris
e a Bassolino (sua moglie Anna Maria Carloni ha anche presentato un’interrogazione parlamentare)
e persino i salviniani di Napoli, in una gara forse non sempre disinteressata: perché la prospettiva
che il santo venga in qualche misura sottratto al popolo e consegnato al clero è tale da suggerire a
qualsiasi politico un prudente allineamento all’umore del popolo medesimo.
All’agrigentino Alfano, che imprudente non è, potrebbe essere sfuggito un aneddoto che la dice lunga su questo risvolto
della napoletanità: quando nel 1947 ci fu da riportare di nuovo a Napoli il tesoro custodito durante
la guerra in Vaticano, la scelta cadde su un camorrista, Giuseppe Navarra, «il re di Poggioreale»,
che assieme al principe allora a capo della Deputazione si mise in macchina su quelle strade
infestate da banditi e disperati, tornò senza perdere nemmeno un grammo d’oro e donò in
beneficienza il doppio del compenso che i canonici d’allora provarono a offrigli.
Sepe, da vero popolano partenopeo sa bene che ventaccio spiri quando la vulgata tira in ballo il
tesoro del santo, e se ne sta chiuso nel palazzo arcivescovile come in un fortino, citando
l’Ecclesiaste («c’è un tempo per tacere...») e facendo sapere che non è questo il tempo «di
alimentare polemiche inutili». Riccardo Imperiali, l’avvocato che gestisce il ricorso al Tar e
discende da una famiglia che siede in Deputazione dall’inizio, ha sostenuto che in ballo, oltre al
tesoro, c’è proprio il santo, «un fortissimo strumento di comunicazione che il cardinale vuole
usare». Imperiali ha fatto parte della commissione che ha tentato invano di riformare lo Statuto.
C’era anche l’abate De Gregorio, che infine ci svela quale sarebbe, secondo lui, il «vero problema»
in questa guerriglia di religione: «I nobili! Noi della Curia non c’entriamo nulla, la questione è tra
loro e il Viminale. Lo ricorda o no che la nobiltà è stata abolita? Beh, come poteva il nuovo Statuto
contenere ancora norme sulla nobiltà? Per questo è saltato tutto e il Viminale ha dato l’ultimatum».
L’ipotesi di introdurre in statuto la nobiltà d’animo non è ancora sul tavolo: magari piacerebbe a
Totò che, modestamente, nobile lo era due volte.
di Goffredo Buccini
rassegna stampa - Corriere della Sera del 7 marzo 2016