E l’Italia gridò Repubblica
E l’Italia gridò Repubblica
di Agostino Giovagnoli
rassegna stampa - Avvenire - 2 giugno 2016
Il 2 giugno 1946, il suolo italiano era sotto l’occupazione alleata, vigevano le pesanti norme
dell’armistizio, l’Italia era ancora priva della sua sovranità nazionale. Gli italiani, però, non fecero
la scelta più sicura ma puntarono sul futuro: non confermarono la monarchia e votarono repubblica.
Si assunsero così, tutti insieme, la responsabilità del Paese.
Molte erano le spinte nella direzione opposta. La monarchia aveva molti collaboratori fedeli e molti
alleati sicuri, ad essa era legata gran parte dell’esercito e della pubblica amministrazione. Gli Alleati
guardavano con preoccupazione alla repubblica e gli inglesi, in particolare, volevano la monarchia.
Nel Mezzogiorno erano fortissime le forze conservatrici e qui il 2 giugno 1946 il voto per il Re
prevalse largamente, con punte oltre l’80% a Napoli, Bari e Catania. Buona parte del mondo
ecclesiastico sostenne la monarchia ma, paradossalmente, lo fece anche Benedetto Croce con il
singolare motivo che serviva a contrastare il Vaticano. (La S. Sede invece si mantenne neutrale: Pio
XII, che pure aveva simpatia per Umberto, il “re di maggio”, non era ostile alla repubblica). Un
ruolo importante giocò il timore di un’affermazione comunista e le sinistre peggiorarono le cose
legando il voto per la repubblica a stravolgimenti radicali che i più temevano. Molte spinte
convergenti, insomma, erano a favore della continuità istituzionale contro quello che i monarchici
definivano il “salto nel buio”. Invece - seppure non di molto: 12 milioni di voti contro 10 - furono
sconfitti. Grande peso ebbero certamente i comportamenti del Re Vittorio Emanuele III, tra i
principali responsabili della dittatura fascista.
Il 28 ottobre 1922, infatti, dopo la “marcia su Roma” invece di proclamare lo stato d’assedio e
ripristinare la legalità, premiò la violenza e il sopruso, affidando il governo a Mussolini. Dopo il
delitto Matteotti, accettò lo stravolgimento dello Stato liberale ereditato dai suoi predecessori e
consentì l’affermazione della dittatura, divenendo complice delle persecuzioni degli antifascisti e
degli ebrei. Davanti all’andamento disastroso della guerra, non prese alcuna iniziativa e aspettò il
voto del Gran Consiglio del fascismo per cambiare governo (e, per evitare rischi, fece arrestare
Mussolini). Stipulato l’armistizio con gli Alleati, fuggì a Brindisi, lasciando lo Stato e gli italiani
senza alcun riferimento: l’8 settembre 1943 è stato per questo definito il “giorno della vergogna”.
Sulla fine della monarchia hanno avuto dunque un peso decisivo non tanto gli errori di Vittorio
Emanuele III, quanto il suo egoismo, la sua meschinità e il suo brutale disinteresse per le sorti degli
italiani (compresa la figlia Mafalda, internata a Buchenwald e fatta morire dai tedeschi nel 1944).
La reazione al “vuoto istituzionale” e il giudizio morale sul comportamento di casa Savoia spinse
una parte degli italiani, che altrimenti sarebbe stata favorevole alla monarchia, ad abbandonarla. In
un sondaggio interno alla Democrazia cristiana, la netta maggioranza degli iscritti si pronunciò per
la repubblica e anche moderati come Mario Scelba o Silvio Gava respinsero le pressioni che
volevano una Dc schierata con il Re. De Gasperi, a sua volta, si impegnò per affidare la scelta ad un
referendum invece che all’Assemblea costituente, come previsto inizialmente. In questo modo
sottrasse argomenti a quanti ne temevano una saldatura dirompente con decisioni cruciali sul nuovo
assetto istituzionale. I cattolici che in quegli anni scelsero per la democrazia creando un loro partito
ebbero dunque un ruolo importante nel referendum del 2 giugno 1946. Un contributo decisivo
venne dalle donne, che votavano allora per la prima volta e che parteciparono numerosissime, come
Tina Anselmi e Nilde Iotti. Guardate con scetticismo e accusate a priori di scarsa consapevolezza
civile e politica, le donne dei principali partiti di massa furono in realtà determinate e attivissime nel
contrastare il voto della paura. Grazie anche a loro, il 2 giugno 1946 vinse la fiducia nel futuro e la
repubblica assunse il volto - notissimo - di una ragazza sorridente con un quotidiano sullo sfondo
che titola a tutta pagina: È nata la Repubblica italiana. (Il nome di questa ragazza, la cui fotografia
pubblicata allora dal settimanale Tempi è stata successivamente riprodotta migliaia e migliaia di
volte, è rimasto a lungo sconosciuto ed è stato identificato solo di recente: si chiamava Anna Irardi).
La sconfitta della monarchia non è stata un salto nel buio. I Presidenti della Repubblica che si sono
susseguiti al Quirinale non hanno certo fatto rimpiangere i Savoia - anche uno dei più discussi,
Giovanni Leone, è stato riabilitato dall’autocritica dei suoi principali accusatori: Marco Pannella ed
Emma Bonino - e alcuni hanno svolto un ruolo cruciale in momenti difficili, come Oscar Luigi
Scalfaro e Giorgio Napolitano.
Con la Repubblica abbiamo avuto settant’anni di democrazia, durante i quali l’Italia si è
enormemente trasformata, le condizioni di vita degli italiani sono molto migliorate, il ruolo italiano
nel mondo è diventato più importante ed incisivo. Indubbiamente, nel tempo della globalizzazione,
l’Italia deve fronteggiare nuovi problemi. Stravolgendo il senso delle parole, c’è chi parla oggi di
una nuova invasione.
Ma non sta accadendo nulla di paragonabile alla dura occupazione militare -
tedesca e alleata - subita dagli italiani tra il 1943 e il 1946 e alle terribili violenze che
l’accompagnarono. Rifugiati ed immigrati che giungono nel nostro paese non sono l’effetto di una
guerra moralmente sbagliata e disastrosamente perduta. Sono, al contrario, testimonianza eloquente
della forza attrattiva della nostra Repubblica e risposta per noi vantaggiosa ai problemi creati dal
calo demografico. Il 2 giugno 1946, nella drammatica situazione del dopoguerra, gli italiani non
voltarono la testa indietro e non si fecero dominare dalla paura. Sarebbe grave se lo facessero oggi.